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25

Fabrizio De André - Album
2005: In Direzione Ostinata E Contraria

Postumo. Tre dischi, canzoni demasterizzate

  Amore Che Vieni, Amore Che Vai
La Città Vecchia
Via Del Campo
Bocca Di Rosa
La Canzone Di Marinella
La Ballata Dell'Amore Cieco
Carlo Martello
La Guerra Di Piero
La Ballata Dell'Eroe
Il Pescatore
La Canzone Dell'Amore Perduto
La Ballata Del Miche'
Preghiera In Gennaio
Valzer Per Un Amore
Si Chiamava Gesù
Il Sogno Di Maria
Ave Maria
Il Testamento Di Tito
Inverno
Girotondo
Terzo Intermezzo
Recitativo/Corale
La Collina
Un Giudice
Un Ottico
Il Suonatore Jones
Introduzione
Canzone Del Maggio
Il Bombarolo
Verranno A Chiederti Del Nostro Amore
La Cattiva Strada
Giugno '73
Canzone Per L'Estate
Amico Fragile
Andrea
Volta La Carta
Titti
Una Storia Sbagliata
Geordie
Fiume Sand Creek
Hotel Supramonte
Se Ti Tagliassero A Pezzetti
Creuza De Mä
Sidùn
'A Dumenega
La Domenica Delle Salme
'A Çimma
Don Raffae'
Khorakhanè
Prinçesa
Ho Visto Nina Volare
Anime Salve
Smisurata Preghiera
Cose Che Dimentico

Amore Che Vieni, Amore Che Vai
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento
un giorno qualunque li ricorderai,
amore che fuggi da me tornerai;
un giorno qualunque ti ricorderai,
amore che fuggi da me tornerai.
E tu che con gli occhi d'un altro colore
mi dici le stesse parole d'amore,
fra un mese, fra un anno scordate le avrai,
amore che vieni da me fuggirai;
fra un mese fra un anno scordate le avrai,
amore che vieni da me fuggirai.
Venuto dal sole o da spiagge gelate,
perduto in novembre o col vento d'estate,
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai,
amore che vieni, amore che vai;
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai,
amore che vieni, amore che vai.

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La Città Vecchia
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi,
ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi,
una bimba canta la canzone antica della donnaccia,
"quello che ancor non sai tu lo imparerai solo qui fra le mie braccia".
E se alla sua età le difetterà la competenza,
presto affinerà le capacità con l'esperienza,
dove sono andati i tempi di una volta, per Giunone,
quando ci voleva per fare il mestiere anche un po' di vocazione.
Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino,
quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino,
li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno
a stratracannare a stramaledir le donne, il tempo ed il governo.
Loro cercan là, la felicità dentro a un bicchiere
per dimenticare d'esser stati presi per il sedere;
ci sarà allegria anche in agonia col vino forte,
porteran sul viso l'ombra d'un sorriso tra le braccia della morte.
Vecchio professore, cosa vai cercando in quel portone?
Forse quella che sola ti può dare una lezione,
quella che di giorno chiami con disprezzo "pubblica moglie",
quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.
Tu la cercherai, tu la invocherai più d'una notte,
ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette
quando incasserai, delapiderai mezza pensione,
diecimila lire per sentirti dire "micio bello e bamboccione".
Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli,
in quell'aria spessa, carica di sale, gonfia di odori,
lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano,
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.
Se tu penserai e giudicherai da buon borghese,
li condannerai a cinquemila anni più le spese;
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli,
vittime di questo mondo.

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Via Del Campo
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Via del Campo c'è una graziosa,
gli occhi grandi color di foglia,
tutta notte sta sulla soglia,
vende a tutti la stessa rosa.
Via del Campo c'è una bambina
con le labbra color rugiada,
gli occhi grigi come la strada,
nascon fiori dove cammina.
Via del Campo c'è una puttana,
gli occhi grandi color di foglia,
se di amarla ti vien la voglia,
basta prenderla per la mano;
e ti sembra di andar lontano,
lei ti guarda con un sorriso,
non credevi che il Paradiso
fosse solo lì al primo piano.
Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare,
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone è chiuso.
Ama e ridi se amor risponde,
piangi forte se non ti sente,
dai diamanti non nasce niente,
dal letame nascono i fior;
dai diamanti non nasce niente,
dal letame nascono i fior.

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Bocca Di Rosa (Versione Poi Censurata)
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
La chiamavano "Bocca di Rosa",
metteva l'amore, metteva l'amore,
la chiamavano "Bocca di Rosa",
metteva l'amore sopra ogni cosa.
Appena scesa alla stazione
del paesino di Sant'Ilario,
tutti si accorsero con uno sguardo
che non si trattava di un missionario.
C'è chi l'amore lo fa per noia,
chi se lo sceglie per professione,
Bocca di Rosa nè l'uno nè l'altro,
lei lo faceva per passione.
Ma la passione spesso conduce
a soddisfare le proprie voglie
senza indagare se il concupito
ha il cuore libero oppure ha moglie.
E fu così che da un giorno all'altro
Bocca di Rosa si tirò addosso
l'ira funesta delle cagnette
a cui aveva sottratto l'osso.
Ma le comari d'un paesino
non brillano certo in iniziativa,
le contromisure fino a quel punto
si limitavano all'invettiva.
Si sa che la gente dà buoni consigli
sentendosi come Gesù nel tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio.
Così una vecchia mai stata moglie,
senza mai figli, senza più voglie,
si prese la briga e di certo il gusto
di dare a tutte il consiglio giusto.
E, rivolgendosi alle cornute,
le apostrofò con parole argute:
"il furto d'amore sarà punito",
disse, "dall'ordine costituito".
E quelle andarono dal commissario
e dissero senza parafrasare:
"quella schifosa ha già troppi clienti,
più di un consorzio alimentare".
Ed arrivarono quattro gendarmi,
con i pennacchi, con i pennacchi,
ed arrivarono quattro gendarmi,
con i pennacchi e con le armi.
Spesso gli sbirri e i carabinieri
al proprio dovere vengono meno,
ma non quando sono in alta uniforme
e l'accompagnarono al primo treno.
Alla stazione c'erano tutti,
dal commissario al sacrestano,
alla stazione c'erano tutti,
con gli occhi rossi e il cappello in mano,
a salutare chi per un poco,
senza pretese, senza pretese,
a salutare chi per un poco
portò l'amore nel paese.
C'era un cartello giallo
con una scritta nera,
diceva "Addio Bocca di Rosa,
con te se ne parte la primavera".
Ma una notizia un po' originale
non ha bisogno di alcun giornale,
come una freccia dall'arco scocca,
vola veloce di bocca in bocca.
E alla stazione successiva
molta più gente di quando partiva,
chi manda un bacio, chi getta un fiore,
chi si prenota per due ore.
Persino il parroco che non disprezza,
fra un miserere e un'estrema unzione,
il bene effimero della bellezza,
la vuole accanto in processione.
E con la Vergine in prima fila
e Bocca di Rosa poco lontano,
si porta a spasso per il paese
l'amore sacro e l'amor profano.

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La Canzone Di Marinella
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera,
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.
Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno d'un amore,
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta.
Bianco come la luna il suo cappello,
come l'amore rosso il suo mantello,
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue l'aquilone.
E c'era il sole e avevi gli occhi belli,
lui ti baciò le labbra ed i capelli;
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi,
lui pose le sue mani sui tuoi fianchi.
Furono baci e furono sorrisi,
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle.
Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta.
Questa è la tua canzone, Marinella,
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose;
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.

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La Ballata Dell'Amore Cieco (O Della Vanità)
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Un uomo onesto, un uomo probo,
tralalalalla tralallalero
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.
Gli disse "portami domani",
tralalalalla tralallalero
gli disse "portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani".
Lui dalla madre andò e l'uccise,
tralalalalla tralallalero
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.
Non era il cuore, non era il cuore,
tralalalalla tralallalero
non le bastava quell'orrore,
voleva un'altra prova del suo cieco amore.
Gli disse ancor "se mi vuoi bene",
tralalalalla tralallalero
gli disse ancor "se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene".
Le vene ai polsi lui si tagliò,
tralalalalla tralallalero
e come il sangue ne sgorgò,
correndo come un pazzo da lei tornò.
Gli disse lei, ridendo forte,
tralalalalla tralallalero
gli disse lei, ridendo forte,
"l'ultima tua prova sarà la morte".
E mentre il sangue lento usciva
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s'era ucciso per il suo amore.
Fuori soffiava dolce il vento
tralalalalla tralallalero
ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato,
quando a lei nulla era restato,
non il suo amore, non il suo bene,
ma solo il sangue secco delle sue vene.

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Carlo Martello (Ritorna Dalla Battaglia Di Poitiers)
(Testo: Fabrizio De André e Paolo Villaggio; Musica: Fabrizio De André)
Re Carlo tornava dalla guerra,
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor;
al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del sire vincitor.
Il sangue del Principe e del Moro
arrossano il cimiero d'identico color,
ma più che del corpo le ferite,
da Carlo son sentite le bramosie d'amor.
"Se ansia di gloria, sete d'onore
spegne la guerra al vincitore,
non ti concede un momento per fare all'amore;
chi poi impone alla sposa soave
di castità la cintura, ahimè grave,
in battaglia può correre il rischio di perder la chiave".
Così si lamenta il Re cristiano,
s'inchina intorno il grano, gli son corona i fior,
lo specchio di chiara fontanella
riflette fiero in sella dei Mori il vincitor.
Quand'ecco nell'acqua si compone,
mirabile visione, il simbolo d'amor;
nel folto di lunghe trecce bionde
il seno si confonde, ignudo in pieno sol.
"Mai non fu vista cosa più bella,
mai io non colsi siffatta pulzella",
disse Re Carlo scendendo veloce di sella.
"Deh, cavaliere, non v'accostate,
già d'altri è gaudio quel che cercate,
ad altra più facile fonte la sete calmate".
Sorpreso da un dire sì deciso,
sentendosi deriso, Re Carlo s'arrestò,
ma più dell'onor potè il digiuno,
fremente, l'elmo bruno, il sire si levò.
Codesta era l'arma sua segreta,
da Carlo spesso usata in gran difficoltà;
alla donna apparve un gran nasone,
un volto da caprone, ma era Sua Maestà.
"Se voi non foste il mio sovrano",
Carlo si sfila il pesante spadone,
"non celerei il disìo di fuggirvi lontano;
ma poiché siete il mio signore",
Carlo si toglie l'intero gabbione,
"debbo concedermi spoglia ad ogni pudore".
Cavaliere egli era assai valente
ed anche in quel frangente d'onor si ricoprì
e giunto alla fin della tenzone,
incerto sull'arcione, tentò di risalir.
Veloce lo arpiona la pulzella,
repente, una parcella presenta al suo signor,
"Deh, proprio perché voi siete il Sire,
fan 'zinque' mila lire, è un prezzo di favor".
"E' mai possibile, o porco di un cane,
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane?
Anche sul prezzo c'è poi da ridire,
ben mi ricordo che pria di partire
v'eran tariffe inferiori alle tremila lire".
Ciò detto, agì da gran cialtrone,
con balzo da leone in sella si lanciò,
frustando il cavallo come un ciuco,
fra i glicini e il sambuco il Re si dileguò.
Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor;
al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del sire vincitor.

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La Guerra Di Piero
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Dormi sepolto in un campo di grano,
non è la rosa, non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi,
ma sono mille papaveri rossi.
"Lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati,
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente".
Così dicevi ed era d'inverno
e come gli altri verso l'inferno
te ne vai triste come chi deve,
il vento ti sputa in faccia la neve.
Fermati, Piero, fermati adesso,
lascia che il vento ti passi un po' addosso,
dei morti in battaglia ti porti la voce,
chi diede la vita ebbe in cambio una croce.
Ma tu non lo udisti e il tempo passava,
con le stagioni a passo di "giava"
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera.
E, mentre marciavi con l'anima in spalle,
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore.
Sparagli, Piero, sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue,
cadere in terra a coprire il suo sangue.
"E se gli sparo in fronte o nel cuore,
soltanto il tempo avrà per morire,
ma il tempo a me resterà per vedere,
vedere gli occhi di un uomo che muore".
E mentre gli usi questa premura,
quello si volta, ti vede, ha paura
ed imbracciata l'artiglieria,
non ti ricambia la cortesia.
Cadesti a terra, senza un lamento,
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chieder perdono per ogni peccato.
Cadesti a terra, senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato ritorno.
Ninetta mia, crepare di maggio,
ci vuole tanto troppo coraggio,
Ninetta bella, dritto all'inferno
avrei preferito andarci in inverno.
E, mentre il grano ti stava a sentire,
dentro le mani stringevi il fucile,
dentro la bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole.
Dormi sepolto in un campo di grano,
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi,
ma sono mille papaveri rossi.

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La Ballata Dell'Eroe
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Era partito per fare la guerra,
per dare il suo aiuto alla sua terra;
gli avevano dato le mostrine e le stelle
e il consiglio di vendere cara la pelle
e quando gli dissero di andare avanti
troppo lontano si spinse a cercare la verità.
Ora che è morto la patria si gloria
d'un altro eroe alla memoria.
Ma lei che lo amava aspettava il ritorno
d'un soldato vivo; d'un eroe morto che ne farà
se accanto nel letto le è rimasta la gloria
d'una medaglia alla memoria?

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Il Pescatore
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
All'ombra dell'ultimo sole,
s'era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.
Venne alla spiaggia un assassino,
due occhi grandi da bambino,
due occhi enormi di paura:
eran gli specchi d'un'avventura.
E chiese al vecchio "dammi il pane,
ho poco tempo e troppa fame"
e chiese al vecchio "dammi il vino,
ho sete e sono un assassino".
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno,
non si guardò neppure intorno,
ma versò il vino, spezzò il pane
per chi diceva "ho sete, ho fame".
E fu il calore d'un momento,
poi via di nuovo verso il vento,
davanti agli occhi ancora il sole,
dietro le spalle un pescatore.
Dietro le spalle un pescatore,
e la memoria è già dolore,
è già il rimpianto d'un aprile
giocato all'ombra d'un cortile.
Vennero in sella due gendarmi,
vennero in sella con le armi,
chiesero al vecchio se lì vicino
fosse passato un assassino.
Ma all'ombra dell'ultimo sole,
s'era assopito il pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso;
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

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La Canzone Dell'Amore Perduto
(Testo: Fabrizio De André; Musica: Sulla melodia del "Concerto in Re Maggiore" di Georg Philipp Telemann)
Ricordi, sbocciavan le viole
con le nostre parole
"non ci lasceremo mai, mai e poi mai";
vorrei dirti ora le stesse cose,
ma, come fan presto, amore, ad appassire le rose,
così per noi
l'amore che strappa i capelli è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po' di tenerezza.
E quando ti troverai in mano
quei fiori appassiti al sole
d'un aprile ormai lontano,
li rimpiangerai,
ma sarà la prima che incontri per strada
che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.
E sarà la prima che incontri per strada
che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.

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La Ballata Del Miche'
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Quando hanno aperto la cella
era già tardi perché
con una corda sul collo
freddo pendeva Michè.
Tutte le volte che un gallo
sento cantar penserò
a quella notte in prigione
quando Michè s'impiccò.
Stanotte Michè
s'è impiccato ad un chiodo perché
non voleva restare vent'anni in prigione
lontano da te.
Nel buio Michè
se n'è andato sapendo che a te
non poteva mai dire che aveva ammazzato
perché amava te.
Io so che Michè
ha voluto morire perché
ti restasse il ricordo del bene profondo
che aveva per te.
Vent'anni gli avevano dato,
la corte decise così
perché un giorno aveva ammazzato
chi voleva rubargli Marì.
Lo avevan perciò condannato,
vent'anni in prigione a marcir,
però adesso che lui s'è impiccato
la porta gli devono aprir.
Se pure Michè
non ti ha scritto spiegando perché
se n'è andato dal mondo, tu sai che l'ha fatto
soltanto per te.
Domani alle tre
nella fossa comune cadrà
senza il prete e la messa perché di un suicida
non hanno pietà.
Domani alle tre
nella terra bagnata sarà
e qualcuno una croce col nome e la data
su lui pianterà;
e qualcuno una croce col nome e la data
su lui pianterà.

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Preghiera In Gennaio
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Lascia che sia fiorito,
Signore, il suo sentiero,
quando a te la sua anima
e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare,
quando verrà al tuo cielo,
là dove in pieno giorno
risplendono le stelle.
Quando attraverserà
l'ultimo vecchio ponte,
ai suicidi dirà,
baciandoli alla fronte,
"venite in Paradiso,
là dove vado anch'io,
perché non c'è l'inferno
nel mondo del buon Dio".
Fate che giunga a Voi
con le sue ossa stanche,
seguìto da migliaia
di quelle facce bianche;
fate che a voi ritorni
fra i morti per oltraggio,
che al cielo ed alla terra
mostrarono il coraggio.
Signori benpensanti,
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi,
Dio fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte,
che all'odio e all'ignoranza
preferirono la morte.
Dio di misericordia,
il tuo bel Paradiso
l'hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso,
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura,
l'inferno esiste solo
per chi ne ha paura.
Meglio di lui nessuno
mai ti potrà indicare
gli errori di noi tutti
che puoi e vuoi salvare.
Ascolta la sua voce
che ormai canta nel vento,
Dio di misericordia,
vedrai, sarai contento;
Dio di misericordia,
vedrai, sarai contento.

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Valzer Per Un Amore (Valzer Campestre)
(Versione di Fabrizio De André; Testo e Musica originali: Gino Marinuzzi, "Valzer Campestre")
Quando carica d'anni e di castità,
tra i ricordi e le illusioni
del bel tempo che non ritornerà,
troverai le mie canzoni,
nel sentirle ti meraviglierai
che qualcuno abbia lodato
le bellezze che allor più non avrai
e che avesti nel tempo passato.
Ma non ti servirà il ricordo,
non ti servirà
che per piangere il tuo rifiuto
del mio amor che non tornerà.
Ma non ti servirà più a niente,
non ti servirà
che per piangere sui tuoi occhi
che nessuno più canterà.
Ma non ti servirà più a niente,
non ti servirà
che per piangere sui tuoi occhi
che nessuno più canterà.
Vola il tempo, lo sai che vola e va,
forse non ce ne accorgiamo,
ma più ancora del tempo che non ha età,
siamo noi che ce ne andiamo;
e per questo ti dico "amore, amor,
io t'attenderò ogni sera,
ma tu vieni, non aspettare ancor,
vieni adesso finchè è primavera".

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Si Chiamava Gesù
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Venuto da molto lontano
a convertire bestie e gente,
non si può dire non sia servito a niente
perché prese la terra per mano.
Vestito di sabbia e di bianco,
alcuni lo dissero santo,
per altri ebbe meno virtù,
si faceva chiamare Gesù.
Non intendo cantare la gloria,
nè invocare la grazia e il perdono
di chi penso non fu altri che un uomo
come Dio passato alla storia,
ma inumano è pur sempre l'amore
di chi rantola senza rancore,
perdonando con l'ultima voce
chi lo uccide fra le braccia d'una croce.
E per quelli che l'ebbero odiato
nel getzemani pianse l'addio,
come per chi l'adorò come Dio
che gli disse "sia sempre lodato",
per chi gli portò in dono alla fine
una lacrima o una treccia di spine,
accettando ad estremo saluto
la preghiera e l'insulto e lo sputo.
E morì come tutti si muore,
come tutti cambiando colore,
non si può dire che sia servito a molto
perché il male dalla terra non fu tolto,
ebbe forse un po' troppe virtù,
ebbe un volto ed un nome: Gesù.
Di Maria dicono fosse il figlio,
sulla croce sbiancò come un giglio.

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Il Sogno Di Maria
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Nel grembo umido, scuro del tempio
l'ombra era fredda, gonfia d'incenso,
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera;
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese "conosci l'estate?",
io per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.
Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade;
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.
Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo, nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.
Le ombre lunghe dei sacerdoti
costrinsero il sogno in un cerchio di voci;
con le ali di prima pensai di scappare,
ma il braccio era nudo e non seppe volare;
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa
e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d'un'altra vita,
foglie le mani, spine le dita.
Voci di strada, rumori di gente
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente;
sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera,
dove forse era sogno ma sonno non era:
"lo chiameranno Figlio di Dio":
parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.
E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.
E tu piano posasti le dita
all'orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte.

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Ave Maria
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
E te ne vai, Maria, fra l'altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.
Sai che fra un'ora forse piangerai,
poi la tua mano nasconderà un sorriso,
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.
Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore,
povero o ricco, umile o Messia.
Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.

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Il Testamento Di Tito
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
"Non avrai altro Dio all'infuori di me",
spesso mi ha fatto pensare;
genti diverse venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale:
credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male;
credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
"Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano":
con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore;
ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.
"Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone",
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore,
non ho provato dolore;
quando a mio padre si fermò il cuore,
non ho provato dolore.
"Ricorda di santificare le feste":
facile, per noi ladroni,
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni,
senza finire legati agli altari,
sgozzati come animali;
senza finire legati agli altari,
sgozzati come animali.
Il quinto dice "non devi rubare"
e forse io l'ho rispettato,
vuotando in silenzio le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio;
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio.
"Non commettere atti che non siano puri",
cioè non disperdere il seme,
feconda una donna ogni volta che l'ami,
così sarai uomo di fede;
poi la voglia svanisce e il figlio rimane,
e tanti ne uccide la fame,
io, forse, ho confuso il piacere e l'amore,
ma non ho creato dolore.
Il settimo dice "non ammazzare,
se del cielo vuoi essere degno":
guardàtela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno,
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno;
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno.
"Non dire falsa testimonianza"
e aiutali a uccidere un uomo;
lo sanno a memoria il diritto divino
e scordano sempre il perdono:
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e, no, non ne provo dolore;
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e, no, non ne provo dolore.
"Non desiderare la roba degli altri",
"non desiderarne la sposa":
ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:
nei letti degli altri già caldi d'amore
non ho provato dolore;
l'invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.
Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest'uomo che muore,
madre, io provo dolore;
nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l'amore.

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Inverno
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Sale la nebbia sui prati bianchi
come un cipresso nei camposanti,
un campanile che non sembra vero
segna il confine fra la terra e il cielo.
Ma tu che vai, ma tu rimani,
vedrai: la neve se ne andrà domani,
rifioriranno le gioie passate
col vento caldo di un'altra estate.
Anche la luce sembra morire
nell'ombra incerta di un divenire,
dove anche l'alba diventa sera
e i volti sembrano teschi di cera.
Ma tu che vai, ma tu rimani,
anche la neve morirà domani,
l'amore ancora ci passerà vicino
nella stagione del biancospino.
La terra stanca sotto la neve
dorme il silenzio di un sonno greve,
l'inverno raccoglie la sua fatica
di mille secoli, da un'alba antica.
Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani,
cadrà altra neve a consolare i campi,
cadrà altra neve sui camposanti.

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Girotondo
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Se verrà la guerra, marcondirondèro,
se verrà la guerra, marcondirondà,
sul mare e sulla terra, marcondirondèra,
sul mare e sulla terra chi ci salverà?
Ci salverà il soldato che non la vorrà,
ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà.
La guerra e già scoppiata, marcondirondèro,
la guerra e già scoppiata, chi ci aiuterà?
Ci aiuterà il buon Dio, marcondirondèra,
ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà.
Buon Dio è già scappato, dove non si sa,
buon Dio se n'è andato, chissà quando ritornerà.
L'areoplano vola, marcondirondèra
l'areoplano vola, marcondirondà.
Se getterà la bomba, marcondirondèro,
se getterà la bomba, chi ci salverà?
Ci salva l'aviatore che non lo farà,
ci salva l'aviatore che la bomba non getterà.
La bomba è già caduta, marcondirondèro,
la bomba è già caduta, chi la prenderà?
La prenderanno tutti, marcondirondèra,
sian belli o siano brutti marcondirondà.
Sian grandi o sian piccini li distruggerà,
sian furbi o sian cretini li fulminerà.
Ci sono troppe buche, marcondirondèra,
ci sono troppe buche, chi le riempirà?
Non potremo più giocare al marcondirondèra,
non potremo più giocare al marcondirondà.
E voi, a divertirvi, andate un po' più in là,
andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà.
La guerra e dappertutto, marcondirondèra,
la terra e tutta a lutto, chi la consolerà?
Ci penseran gli uomini, le bestie e i fiori,
i boschi e le stagioni con i mille colori.
Di gente, bestie e fiori no, non ce n'è più,
viventi siam rimasti noi e nulla più.
La terra è tutta nostra, marcondirondèra,
ne faremo una gran giostra, marcondirondà.
Abbiam tutta la terra, marcondirondèra,
giocheremo a far la guerra, marcondirondà.
La terra è una gran giostra, marcondirondèra,
faremo festa grossa, marcondirondà.
Abbiam tutta la guerra, marcondirondèra,
giocheremo a far la terra, marcondirondà.
Abbiam la terra nostra, marcondirondera,
per far la guerra grossa, marcondirondà...

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Terzo Intermezzo
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
La polvere, il sangue, le mosche, l'odore,
per strada e fra i campi la gente che muore.
E tu, tu la chiami guerra e non sai che cos'è,
e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi perché.
L'autunno negli occhi, l'estate nel cuore,
la voglia di dare, l'istinto di avere.
E tu, tu lo chiami amore e non sai che cos'è,
e tu, tu lo chiami amore e non ti spieghi perché.

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Recitativo/Corale (Due Invocazioni E Un Atto D'Accusa/Leggenda Del Re Infelice)
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Uomini senza fallo, semidei
che vivete in castelli inargentati,
che di gloria toccaste gli apogei,
noi che invochiam pietà siamo i drogati.
Dell'inumano varcando il confine,
conoscemmo anzitempo la carogna
che ad ogni ambìto sogno mette fine,
che la pietà non vi sia di vergogna.
C'era un re
che aveva
due castelli,
uno d'argento, uno d'oro,
ma per lui
non il cuore
di un amico,
mai un amore nè felicità.

Banchieri, pizzicagnoli, notai
coi ventri obesi e le mani sudate,
coi cuori a forma di salvadanai,
noi che invochiam pietà fummo traviate.
Navigammo su fragili vascelli
per affrontar del mondo la burrasca
ed avevamo gli occhi troppo belli,
che la pietà non vi rimanga in tasca.
Giudici eletti, uomini di legge,
noi che danziàm nei vostri sogni ancora
siamo l'umano desolato gregge
di chi morì con il nodo alla gola.
Quanti innocenti all'orrenda agonia
votaste, decidendone la sorte
e quanto giusta pensate che sia
una sentenza che decreta morte?
Un castello
lo donò
e cento e cento amici trovò,
l'altro poi
gli portò
mille amori,
ma non trovò
la felicità.

Uomini, cui pietà non convien sempre,
mal accettando il destino comune,
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un dòmino che non avrà mai fine.
Uomini, poiché all'ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano,
finché non sia maturo per la falce.
Non cercare la felicità
in tutti quelli a cui tu
hai donato
per avere un compenso,
ma solo in te,
nel tuo cuore,
se tu avrai donato
solo per pietà.

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La Collina
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Dove se n'è andato Elmer,
che di febbre si lasciò morire?
Dov'è Herman, bruciato in miniera?
Dove sono Bert e Tom,
il primo ucciso in una rissa
e l'altro che uscì già morto di galera?
E cosa ne sarà di Charley
che cadde mentre lavorava
e dal ponte volò, volò sulla strada?
Dormono, dormono sulla collina;
dormono, dormono sulla collina.
Dove sono Ella e Kate,
morte entrambe per errore,
una di aborto, l'altra d'amore?
E Maggie, uccisa in un bordello
dalle carezze d'un animale?
E Edith, consumata da uno strano male?
E Lizzie, che inseguì la vita
lontano e dall'Inghilterra
fu riportata in questo palmo di terra?
Dormono, dormono sulla collina;
dormono, dormono sulla collina.
Dove sono i generali
che si fregiarono nelle battaglie
con cimiteri di croci sul petto?
Dove i figli della guerra,
partiti per un ideale
per una truffa, per un amore finito male?
Hanno rimandato a casa
le loro spoglie nelle bandiere,
legate strette perché sembrassero intere.
Dormono, dormono sulla collina;
dormono, dormono sulla collina.
Dov'è Jones, il suonatore
che fu sorpreso dai suoi novant'anni
e con la vita avrebbe ancora giocato?
Lui che offrì la faccia al vento,
la gola al vino e mai un pensiero
non al denaro, non all'amore né al cielo?
Lui, sì, sembra di sentirlo
cianciare ancora delle porcate
mangiate in strada nelle ore sbagliate.
Sembra di sentirlo ancora
dire al mercante di liquore
"tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?".

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Un Giudice
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Cosa vuol dire avere
un metro e mezzo di statura?
Ve lo rivelan gli occhi
e le battute della gente,
o la curiosità
d'una ragazza irriverente
che vi avvicina solo
per un suo dubbio impertinente:
vuole scoprir se è vero
quanto si dice intorno ai nani,
che siano i più forniti
della virtù meno apparente,
fra tutte le virtù
la più indecente.
Passano gli anni, i mesi,
e, se li conti, anche i minuti,
è triste trovarsi adulti
senza essere cresciuti;
la maldicenza insiste,
batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano
è una carogna di sicuro
perché ha il cuore toppo,
troppo vicino al buco del culo.
Fu nelle notti insonni,
vegliate al lume del rancore,
che preparai gli esami,
diventai procuratore
per imboccar la strada
che dalle panche d'una cattedrale
porta alla sacrestia
quindi alla cattedra d'un tribunale,
giudice finalmente,
arbitro in terra del bene e del male.
E allora la mia statura
non dispensò più buonumore
a chi alla sbarra in piedi
mi diceva "Vostro Onore",
e di affidarli al boia
fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi
nell'ora dell'addio,
non conoscendo affatto
la statura di Dio.

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Un Ottico
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Daltonici, presbiti, mendicanti di vista,
il mercante di luce, il vostro oculista
ora vuole soltanto clienti speciali
che non sanno che farne di occhi normali.
Non più ottico, ma spacciatore di lenti
per improvvisare occhi contenti,
perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
Seguite con me questi occhi sognare,
fuggire dall'orbita e non voler ritornare.
Vedo che salgo a rubare il sole
per non aver più notti,
perché non cada in reti di tramonti,
l'ho chiuso nei miei occhi,
e chi avrà freddo
lungo il mio sguardo si dovrà scaldare.
Vedo i fiumi dentro le mie vene,
cercano il loro mare,
rompono gli argini,
trovano cieli da fotografare.
Sangue che scorre senza fantasia
porta tumori di malinconia.
Vedo gendarmi pascolare,
donne chine sulla rugiada,
rosse le lingue al polline dei fiori
ma dov'è l'ape regina?
Forse è volata ai nidi dell'aurora,
forse è volata, forse più non vola.
Vedo gli amici ancora sulla strada,
loro non hanno fretta,
rubano ancora al sonno l'allegria,
all'alba un po' di notte;
e poi la luce, luce che trasforma
il mondo in un giocattolo.
Faremo gli occhiali così!
Faremo gli occhiali così!

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Il Suonatore Jones
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa.
Sentivo la mia terra
vibrare di suoni:
era il mio cuore,
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore.
Libertà: l'ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.
Libertà: l'ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.
E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.
Finì con i campi alle ortiche,
finì con un flauto spezzato
e un ridere rauco,
e ricordi tanti,
e nemmeno un rimpianto.

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Introduzione
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Lottavano, così come si gioca,
i cuccioli del maggio: era normale.
Loro avevano il tempo anche per la galera,
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia, la stessa primavera.

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Canzone Del Maggio
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio,
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento,
se il fuoco ha risparmiato
le vostre Millecento,
anche se voi vi credete assolti,
siete lo stesso coinvolti.
E se vi siete detti
"non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente",
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco,
provate pure a credervi assolti:
siete lo stesso coinvolti.
Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso,
la notte che le "pantere"
ci mordevano il sedere,
lasciandoci in buonafede
massacrare sui marciapiede,
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte, voi, c'eravate.
E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate,
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le verità della televisione,
anche se allora vi siete assolti,
siete lo stesso coinvolti.
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare,
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte:
per quanto voi vi crediate assolti,
siete per sempre coinvolti;
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

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Il Bombarolo
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Chi va dicendo in giro
che odio il mio lavoro,
non sa con quanto amore
mi dedico al tritolo,
è quasi indipendente,
ancora poche ore,
poi gli darò la voce:
il detonatore.
Il mio Pinocchio fragile,
parente artigianale
di ordigni costruiti
su scala industriale,
di me non farà mai
un cavaliere del lavoro,
io son d'un'altra razza:
son bombarolo.
Nel scendere le scale
ci metto più attenzione,
sarebbe imperdonabile
giustiziarmi sul portone,
proprio nel giorno in cui
la decisione è mia
sulla condanna a morte
o l'amnistia.
Per strada tante facce
non hanno un bel colore,
qui chi non terrorizza
si ammala di terrore,
c'è chi aspetta la pioggia
per non piangere da solo,
io son d'un altro avviso:
son bombarolo.
Intellettuali d'oggi,
idioti di domani,
ridatemi il cervello
che basta alle mie mani,
profeti molto acrobati
della rivoluzione,
oggi farò da me
senza lezione.
Vi scoverò i nemici
per voi così distanti
e dopo averli uccisi
sarò fra i latitanti,
ma finchè li cerco io,
i latitanti sono loro,
ho scelto un'altra scuola:
son bombarolo.
Potere troppe volte
delegato ad altre mani,
sganciato e restituitoci
dai tuoi aereoplani,
io vengo a restituirti
un po' del tuo terrore,
del tuo disordine,
del tuo rumore.
Così pensava forte
un trentenne disperato,
se non del tutto giusto,
quasi niente sbagliato,
cercando il luogo idoneo,
adatto al suo tritolo,
insomma il posto degno
d'un bombarolo.
C'è chi lo vide ridere
davanti al Parlamento,
aspettando l'esplosione
che provasse il suo talento,
c'è chi lo vide piangere
un torrente di vocali,
vedendo esplodere
un chiosco di giornali.
Ma ciò che lo ferì
profondamente nell'orgoglio
fu l'immagine di lei
che si sporgeva da ogni foglio,
lontana dal ridicolo
in cui lo lasciò solo,
ma in prima pagina
col bombarolo.

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Verranno A Chiederti Del Nostro Amore
(Testo: Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; Musica: Fabrizio De André e Nicola Piovani)
Quando, in anticipo sul tuo stupore,
verranno a chiederti del nostro amore,
a quella gente consumata nel farsi dar retta,
un amore così lungo,
tu, non darglielo in fretta;
non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole,
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell'amore,
dopo l'amore così sicure
a rifugiarsi nei "sempre",
nell'ipocrisia dei "mai":
non son riuscito a cambiarti,
non mi hai cambiato, lo sai?
E dietro ai microfoni porteranno uno specchio
per farti più bella e pensarmi già vecchio,
tu regalagli un trucco che con me non portavi
e loro si stupiranno
che tu non mi bastavi;
digli pure che il potere io l'ho scagliato dalle mani,
dove l'amore non era adulto e ti lasciavo graffi sui seni,
per ritornare dopo l'amore
alle carezze dell'amore,
era facile ormai:
non sei riuscita a cambiarmi,
non ti ho cambiata, lo sai?
Digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre,
come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre,
i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro,
i tuoi occhi assunti da tre anni,
i tuoi occhi per loro;
ormai buoni per setacciare spiagge con la scusa del corallo
o per buttarsi in un cinema con una pietra al collo
e troppo stanchi per non vergognarsi
di confessarlo nei miei,
proprio identici ai tuoi:
sono riusciti a cambiarci,
ci son riusciti, lo sai?
Ma senza che gli altri ne sappiano niente,
dimmi, senza un programma, dimmi come ci si sente,
continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito,
farai l'amore per amore
o per avercelo garantito;
andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori
o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori
o resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro,
senza chiederti come mai,
continuerai a farti scegliere,
o finalmente sceglierai?

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La Cattiva Strada
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Francesco De Gregori)
Alla parata militare
sputò negli occhi a un innocente
e quando lui chiese perché,
lui gli rispose "questo è niente,
e adesso è ora che io vada"
e l'innocente lo seguì,
senza le armi lo seguì,
sulla sua cattiva strada.
Nei viali dietro la stazione
rubò l'incasso a una "regina"
e quando lei gli disse "come",
lui le rispose "forse è meglio, è come prima,
forse è ora che io vada"
e la "regina" lo seguì,
col suo dolore lo seguì,
sulla sua cattiva strada.
E in una notte senza luna
truccò le stelle ad un pilota,
quando l'aeroplano cadde
lui disse "è colpa di chi muore,
comunque è meglio che io vada",
ed il pilota lo seguì,
senza le stelle lo seguì,
sulla sua cattiva strada.
A un diciottenne alcolizzato
versò da bere ancora un poco
e mentre quello lo guardava
lui disse "amico, ci scommetto, stai per dirmi
'adesso è ora che io vada'",
l'alcolizzato lo capì,
non disse niente e lo seguì
sulla sua cattiva strada.
Ad un processo per amore
baciò le bocche dei giurati
e ai loro sguardi imbarazzati
rispose "adesso è più normale,
adesso è meglio, adesso è giusto, giusto,
è giusto che io vada"
ed i giurati lo seguirono,
a bocca aperta lo seguirono
sulla sua cattiva strada;
sulla sua cattiva strada.
E quando poi sparì del tutto,
a chi diceva "è stato un male",
a chi diceva "è stato un bene",
raccomandò "non vi conviene
venir con me dovunque vada,
ma c'è amore un po' per tutti
e tutti quanti hanno un amore
sulla cattiva strada;
sulla cattiva strada".

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Giugno '73
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Tua madre ce l'ha molto con me
perché sono sposato e in più canto,
però canto bene e non so se tua madre
sia altrettanto capace a vergognarsi di me.
La gazza che ti ho regalato
è morta, tua sorella ne ha pianto,
quel giorno non avevano fiori, peccato,
quel giorno vendevano gazze parlanti.
E speravo che avrebbe insegnato a tua madre
a dirmi "ciao come stai",
insomma non proprio a cantare,
per quello ci sono già io, come sai.
I miei amici sono tutti educati con te,
però vestono in modo un po' strano,
mi consigli di mandarli da un sarto e mi chiedi
"Sono loro stasera i migliori che abbiamo?".
E adesso ridi e ti versi un cucchiaio di mimosa
nell'imbuto di un polsino slacciato.
I miei amici ti hanno dato la mano,
li accompagno, il loro viaggio porta un po' più lontano.
E tu, aspetta un amore più fidato,
il tuo accendino, sai, io l'ho già regalato
e lo stesso quei due peli d'elefante,
mi fermavano il sangue,
li ho dati a un passante.
Poi il resto viene sempre da sè,
i tuoi "aiuto" saranno ancora salvati,
io mi dico "è stato meglio lasciarci
che non esserci mai incontrati".

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Canzone Per L'Estate
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Francesco De Gregori)
Con tua moglie che lavava i piatti in cucina e non capiva,
con tua figlia che provava il suo vestito nuovo e sorrideva,
con la radio che ronzava
per il mondo cose strane
e il respiro del tuo cane che dormiva.
Coi tuoi santi sempre pronti a benedire i tuoi sforzi per il pane,
con il tuo bambino biondo a cui hai donato una pistola per Natale
che sembra vera,
con il letto in cui tua moglie
non ti ha mai saputo dare
e gli occhiali che tra un po' dovrai cambiare.
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Con le tue finestre aperte sulla strada e gli occhi chiusi sulla gente,
con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente,
la tua coda di ricambio,
le tue nuvole in affitto,
le tue rondini di guardia sopra il tetto.
Con il tuo francescanesimo a puntate e la tua dolce consistenza,
col tuo ossigeno purgato e le tue onde regolate in una stanza,
col permesso di trasmettere
e il divieto di parlare
e ogni giorno un altro giorno da contare.
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Con i tuoi entusiasmi lenti precisati da ricordi stagionali
e una bella addormentata che si sveglia a tutto quel che le regali,
con il tuo collezionismo
di parole complicate,
la tua ultima canzone per l'estate.
Con le tue mani di carta per avvolgere altre mani normali,
con l'idiota in giardino ad isolare le tue rose migliori,
col tuo freddo di montagna
e il divieto di sudare
e più niente per poterti vergognare.
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?
Com'è che non riesci più a volare?

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Amico Fragile
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Evaporato in una nuvola rossa,
in una delle molte feritoie della notte,
con un bisogno d'attenzione e d'amore
troppo "se mi vuoi bene, piangi"
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo "mi ricordo":
per osservarvi affittare un chilo d'erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre, ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità.
Perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.
E poi sospeso tra i vostri "come sta?",
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo "come ti senti, amico, amico fragile?
Se vuoi potrò occuparmi un'ora al mese di te",
"lo sa che io ho perduto due figli?",
"signora lei è una donna piuttosto distratta".
E, ancora, ucciso dalla vostra cortesia
nell'ora in cui un mio sogno,
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo "è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra".
E, poi, seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi;
ero molto meno stanco di voi.
Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta,
fino a vederle spalancarsi la bocca;
potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male ad alta voce di me;
potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse "perderemo";
potevo chiedervi come si chiama il vostro cane,
il mio è un po' di tempo che si chiama Libero;
potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle;
potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse "Arrivederci".
E mai che mi sia venuto in mente
di essere più ubriaco di voi,
di essere molto più ubriaco di voi.

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Andrea
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
Andrea s'è perso, s'è perso e non sa tornare;
Andrea s'è perso, s'è perso e non sa tornare.
Andrea aveva un amore: "Riccioli Neri";
Andrea aveva un dolore: "Riccioli Neri".
C'era scritto sul foglio che era morto, sulla bandiera;
c'era scritto e la firma era d'oro, era firma di re.
Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia;
ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia.
Occhi di bosco, contadino del Regno, profilo francese;
occhi di bosco, soldato del Regno, profilo francese.
E Andrea l'ha perso, ha perso l'amore: la perla più rara;
e Andrea ha in bocca, ha in bocca un dolore: la perla più scura.
Andrea coglieva, raccoglieva violette ai bordi del pozzo;
Andrea gettava "Riccioli Neri" nel cerchio del pozzo.
Il secchio gli disse, gli disse: "Signore, il pozzo è profondo;
più fondo del fondo degli occhi della Notte del Pianto".
Lui disse "Mi basta, mi basta che sia più profondo di me";
lui disse "Mi basta, mi basta che sia più profondo di me".

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Volta La Carta
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
C'è una donna che semina il grano:
volta la carta, si vede il villano;
il villano che zappa la terra:
volta la carta, viene la guerra;
per la guerra non c'è più soldati,
a piedi scalzi son tutti scappati.
Angiolina cammina cammina sulle sue scarpette blu,
carabiniere l'ha innamorata, volta la carta e lui non c'è più;
carabiniere l'ha innamorata, volta la carta e lui non c'è più.
C'è un bambino che sale un cancello,
ruba ciliegie e piume d'uccello,
tira sassate, non ha dolori:
volta la carta, c'è il fante di cuori.
Fante di cuori che è un fuoco di paglia:
volta la carta e il gallo ti sveglia.
Angiolina alle sei di mattina s'intreccia i capelli con foglie d'ortica,
ha una collana di ossi di pesca, la gira tre volte intorno alle dita;
ha una collana di ossi di pesca, la conta tre volte in mezzo alle dita.
Mia madre ha un mulino e un figlio infedele,
gli inzucchera il naso di torta di mele;
mia madre e il mulino son nati ridendo:
volta la carta, c'è un pilota biondo;
pilota biondo, camicie di seta,
cappello di volpe, sorriso da atleta.
Angiolina seduta in cucina che piange, che mangia insalata di more;
ragazzo straniero ha un disco d'orchestra che gira veloce, che parla d'amore;
ragazzo straniero ha un disco d'orchestra che gira, che gira, che parla d'amore.
Madamadorè ha perso sei figlie
e tra i bar del porto le sue meraviglie,
Madamadorè sa puzza di gatto:
volta la carta e paga il riscatto,
paga il riscatto con le borse degli occhi
pieni di foto di sogni interrotti.
Angiolina ritaglia giornali, si veste da sposa, canta vittoria,
chiama i ricordi col loro nome, volta la carta e finisce in gloria;
chiama i ricordi col loro nome, volta la carta e finisce in gloria.

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Titti
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
Come due canne sul calcio del fucile,
come due promesse nello stesso aprile,
come due serenate alla stessa finestra,
come due cappelli sulla stessa testa.
Come due soldini sul palmo della mano,
come due usignoli, pioggia e piume,
sullo stesso ramo.
Titti aveva due amori:
uno di cielo, uno di terra,
di segno contrario,
uno in pace, uno in guerra.
Titti aveva due amori:
uno in terra, uno in cielo,
insomma, di segno contrario,
uno buono, uno vero.
Come le lancette dello stesso orologio,
come due cavalieri dentro il sortilegio,
e furono i due legni che fecero la croce,
e intorno due banditi con la stessa voce.
Come due risposte con una parola,
come due desideri per una stella sola.
Titti aveva due amori:
uno di cielo, uno di terra,
di segno contrario,
uno in pace, uno in guerra.
Titti aveva due amori:
uno in terra, uno in cielo,
insomma, di segno contrario,
uno buono, uno vero.

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Una Storia Sbagliata
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
E' una storia da dimenticare,
è una storia da non raccontare,
è una storia un po' complicata,
è una storia sbagliata.
Cominciò con la luna sul posto
e finì con un fiume d'inchiostro,
è una storia un poco scontata,
è una storia sbagliata.
Storia diversa per gente normale,
storia comune per gente speciale,
cos'altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite;
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.
E' una storia di periferia,
è una storia da una botta e via,
è una storia sconclusionata,
una storia sbagliata.
Una spiaggia ai piedi del letto,
Stazione Termini ai piedi del cuore,
una notta un po' concitata,
una notte sbagliata.
Notte diversa per gente normale,
notte comune per gente speciale,
cos'altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite;
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.
E' una storia vestita di nero,
è una storia da basso impero,
è una storia mica male insabbiata,
è una storia sbagliata.
E' una storia da carabinieri,
è una storia per parrucchieri,
è una storia un po' sputtanata,
o è una storia sbagliata.
Storia diversa per gente normale,
storia comune per gente speciale,
cos'altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite;
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.
Per il segno che c'è rimasto
non ripeterci quanto ti spiace,
non ci chiedere più com'è andata,
tanto lo sai che è una storia sbagliata;
tanto lo sai che è una storia sbagliata.

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Geordie
(Canzone popolare celtica; Rielaborazione di Fabrizio De André. Cantata con Maureen Rix)
Mentre attraversavo London Bridge,
un giorno senza sole,
vidi una donna pianger d'amore,
piangeva per il suo Geordie.
Impiccheranno Geordie con una corda d'oro,
è un privilegio raro;
rubò sei cervi nel parco del re,
vendendoli per denaro.
Sellate il suo cavallo dalla bianca criniera,
sellàtele il suo pony,
cavalcherà fino a Londra stasera,
ad implorare per Geordie.
Geordie non rubò mai neppure per me
un frutto o un fiore raro;
rubò sei cervi nel parco del re,
vendendoli per denaro.
Salvate le sue labbra, salvate il suo sorriso,
non ha vent'anni ancora;
cadrà l'inverno anche sopra il suo viso,
potrete impiccarlo allora.
Nè il cuore degli inglesi, nè lo scettro del re
Geordie potran salvare,
anche se piangeranno con te,
la legge non può cambiare.
Così lo impiccheranno con una corda d'oro,
è un privilegio raro;
rubò sei cervi nel parco del re,
vendendoli per denaro.

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Fiume Sand Creek
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura,
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura,
fu un generale di vent'anni,
occhi turchini e giacca uguale;
fu un generale di vent'anni,
figlio d'un temporale.
C'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
e quella musica distante diventò sempre più forte,
chiusi gli occhi per tre volte,
mi ritrovai ancora lì;
chiesi a mio nonno "è solo un sogno?",
mio nonno disse "sì".
A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek.
Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso,
il lampo in un orecchio, nell'altro il Paradiso,
le lacrime più piccole,
le lacrime più grosse
quando l'albero della neve
fiorì di stelle rosse.
Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek.
Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
c'erano solo cani e fumo e tende capovolte,
tirai una freccia in cielo
per farlo respirare,
tirai una freccia al vento
per farlo sanguinare.
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek.
Si son presi i nostri cuori sotto una coperta scura,
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura,
fu un generale di vent'anni,
occhi turchini e giacca uguale;
fu un generale di vent'anni,
figlio d'un temporale.
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek.

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Hotel Supramonte
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
E se vai all'Hotel Supramonte e guardi il cielo,
tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo
e una lettera vera di notte, falsa di giorno
e poi scuse e accuse e scuse senza ritorno.
E ora viaggi, ridi, vivi o sei perduta,
col tuo ordine discreto dentro il cuore.
Ma dove, dov'è il tuo amore? Ma dove è finito il tuo amore?
Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile,
grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere
e un invito all'Hotel Supramonte dove ho visto la neve,
sul tuo corpo così dolce di fame, così dolce di sete.
Passerà anche questa stazione senza far male,
passerà questa pioggia sottile come passa il dolore.
Ma dove, dov'è il tuo cuore? Ma dove è finito il tuo cuore?
E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome,
ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme;
ma se ti svegli e hai ancora paura, ridammi la mano,
cosa importa se sono caduto, se sono lontano?
Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole,
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole.
Ma dove, dov'è il tuo amore? Ma dove è finito il tuo amore?

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Se Ti Tagliassero A Pezzetti
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
Se ti tagliassero a pezzetti,
il vento li raccoglierebbe,
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio,
di Dio il sorriso.
Ti ho trovata lungo il fiume
che suonavi una foglia di fiore,
che cantavi parole leggere, parole d'amore;
ho assaggiato le tue labbra di miele rosso rosso,
ti ho detto "dammi quello che vuoi, io quel che posso".
Rosa gialla, rosa di rame,
mai ballato così a lungo
lungo il filo della notte, sulle pietre del giorno;
io suonatore di chitarra, io suonatore di mandolino,
alla fine siamo caduti sopra il fieno.
Persa per molto, persa per poco,
presa sul serio, presa per gioco,
non c'è stato molto da dire o da pensare,
la fortuna sorrideva come uno stagno a primavera,
spettinata da tutti i venti della sera.
E adesso aspetterò domani per avere nostalgia,
signora Libertà, signorina Fantasia,
così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza,
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza.
T'ho incrociata alla stazione
che inseguivi il tuo profumo,
presa in trappola da un tailleur grigio fumo,
i giornali in una mano e nell'altra il tuo destino,
camminavi fianco a fianco al tuo assassino.
Ma se ti tagliassero a pezzetti,
il vento li raccoglierebbe,
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna, la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio,
di Dio il sorriso.

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Creuza De Mä
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Umbre de muri, muri de mainé:
dunde ne vegnì, duve l'è ch'ané?
De 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa
e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua,
e a muntä l'àseo gh'é restou Diu:
u Diàu l'é in çë e u s'è gh'è faetu u nìu;
ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria
a a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria.
E 'nt'a cä de pria chi ghe saià,
int'à cä du Dria che u nu l'è mainà?
Gente de Lûgan, facce de mandillä,
quei che du luassu preferiscian l'ä,
figge de famiggia, udù de bun,
che ti peu ammiàle sensa u gundun.
E a 'ste panse veue cose che daià,
cose da beive, cose da mangiä?
Frittûa de pigneu, giancu de Purtufin,
çervelle de bae 'nt'u meximu vin,
lasagne da fiddià ai quattru tucchi,
paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi (*).
E 'nsc'ià barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi,
emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi,
finché u matin crescià da puéilu rechéugge,
frè di ganeuffeni e de figge,
bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza (**) de mä.
(*) - "Lévre de cuppi": Gatto.
(**) - "Creuza": Qui impropriamente tradotto "mulattiera". In realtà la Creuza è nel genovesato una strada suburbana che scorre fra due muri che solitamente determinano i confini di proprietà.

Traduzione dal genovese: "Mulattiera Di Mare"
Ombre di facce, facce di marinai:
da dove venite, dov'è che andate?
Da un posto dove la luna si mostra nuda
e la notte ci ha puntato il coltello alla gola,
e a montare l'asino c'è rimasto Dio:
il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido;
usciamo dal mare per asciugare le ossa dell'Andrea
alla fontana dei colombi nella casa di pietra.
E nella casa di pietra chi ci sarà,
nella casa dell'Andrea che non è marinaio?
Gente di Lugano, facce da tagliaborse,
quelli che della spigola preferiscono l'ala,
ragazze di famiglia, odore di buono,
che puoi guardarle senza preservativo.
E a queste pance vuote cosa gli darà,
cosa da bere, cosa da mangiare?
Frittura di pesciolini, bianco di Portofino,
cervelle di agnello nello stesso vino,
lasagne da tagliare ai quattro sughi,
pasticcio in agrodolce di lepre di tegole.
E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli,
emigranti della risata con i chiodi negli occhi,
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere,
fratello dei garofani e delle ragazze,
padrone della corda marcia d'acqua e di sale
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.

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Sidùn
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
U mæ ninìn, u mæ,
u mæ,
lerfe grasse au su
d'amë, d'amë,
tûmù duçe benignu
de teu muaè,
spremmûu 'nta maccaia
de staë, de staë;
e oua grûmmu de sangue ouëge
e denti de laete,
e i euggi di surdatti, chen arraggë
cu'a scciûmma a a bucca, cacciuéi de baë,
a scurrï a gente cumme selvaggin-a
finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué,
e doppu u feru in gua, i feri d'ä prixún
e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún
perché de nostru da a cianûa a u meü
nu peua ciû cresce ni ærbu, ni spica, ni figgeü.
Ciao, mæ 'nin; l'eredítaë
l'è ascusa
'nte sta çittaë
ch'a brûxa, ch'a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a.

Traduzione dal genovese: "Sidone"
Il mio bambino, il mio,
il mio,
labbra grasse al sole
di miele, di miele,
tumore dolce benigno
di tua madre,
spremuto nell'afa umida
dell'estate, dell'estate;
e ora grumo di sangue orecchie
e denti da latte,
e gli occhi dei soldati, cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca, cacciatori di agnelli,
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non ha spento loro la voglia,
e dopo il ferro in gola, i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
perché di nostro dalla pianura al mare
non possa più crescere albero, né spiga, né figlio.
Ciao, bambino mio; l'eredità
è nascosta
in questa città
che brucia, che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte.

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'A Dumenega
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Quandu ä dumenega fan u gíu,
cappellin neuvu, neuvu u vestiu,
cu 'a madama, a madama 'n testa,
o belin che festa, o belin che festa!
E tûtti apreuvu ä pruccessiún
d'a Teresin-a du Teresún,
tûtti a miâ ë figge du diàu,
che belin de lou, che belin de lou!
E a stu luciâ de cheusce e de tettìn
ghe fan u sciätu anche i ciû piccìn:
"mama, mama, damme ë palanche,
veuggiu anâ a casín, veuggiu anâ a casín!".
E ciû s'addentran inta cittaë
ciû euggi e vuxi ghe dan deré,
ghe dixan quellu che nu peúan dî
de zeùggia, de sabbu e de lûnedì.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce da sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu. (*)
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce da sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
E u direttú du portu c'u ghe vedde l'ou
'nte quelle scciappe a reposu da u lou,
pe nu fâ vedde ch'u l'è cuntentu
ch'u meu neuvu u gh'à u finansiamentu,
u se cunfunde 'nta confûsiûn
cun l'euggiu pin de indignasiún,
e u ghe cría, u ghe cría deré
"bagasce sëi e ghe restè".
E ti che ti ghe sbraggi apreuvu
"mancu ciû u nasu gh'avei de neuvu",
bruttu galûsciu de 'n purtòu de Cristu,
nu tè l'ûnicu ch'u se n'è avvistu
che in mezu a quelle creatûe
che se guagnan u pan da nûe
a gh'è, a gh'è, a gh'è, a gh'è,
a gh'è anche teu muggè.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
Era costume della vecchia Genova che le prostitute fossero relegate in un quartiere della città. Tra i diritti ad esse riconosciuti vi era quello della passeggiata domenicale. Il comune era solito dare in appalto le case di tolleranza con i cui ricavi pare riuscisse coprire quasi per intero gli annuali lavori portuali.
(*) - Ciamberlin, Fuxe, Caignàn, Puntexellu: Piazze, vie e località di Genova.

Traduzione dal genovese: "La Domenica"
Quando alla domenica fanno il giro,
cappellino nuovo, nuovo il vestito,
con la madama, la madama in testa,
cazzo che festa, cazzo che festa!
E tutti dietro alla processione
della Teresina del Teresone,
tutti a guardare le figlie del diavolo,
che cazzo di lavoro, che cazzo di lavoro!
E a questo dondolare di cosce e di tette
gli fanno il chiasso anche i più piccoli:
"mamma, mamma, dammi i soldi,
voglio andare a casino, voglio andare a casino!".
E più si addentrano nella città
più occhi e voci danno loro dietro,
dicono loro quello che non possono dire
di giovedì, di sabato e di lunedì.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
E il direttore del porto che ci vede l'oro
in quelle chiappe a riposo dal lavoro,
per non fare vedere che è contento
che il molo nuovo ha il finanziamento,
si confonde nella confusione
con l'occhio pieno di indignazione
e grida loro, grida loro dietro
"bagasce siete e ci restate!".
E tu che sbraiti loro appresso
"neanche più il naso avete di nuovo",
brutto stronzo di un portatore di Cristo,
non sei l'unico che s'è accorto
che in mezzo a quelle creature
che si guadagnano il pane da nude
c'è, c'è, c'è, c'è,
c'è anche tua moglie.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.

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La Domenica Delle Salme
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia d'orzata
dove galleggia Milano;
non fu difficile seguirlo,
il poeta della Baggìna (*):
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina;
gli incendiarono il letto
sulla strada di Trento,
riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento.
I Polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime,
lanciate verso il mare;
i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est:
chi si convertiva nel Novanta
ne era dispensato nel Novantuno;
la scimmia del Quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutti il culo;
la Piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa,
masso per masso,
schiavo per schiavo,
comunista per comunista.
La Domenica delle Salme
non si udirono fucilate,
il gas esilarante
presidiava le strade;
la Domenica delle Salme
si portò via tutti i pensieri
e le regine del ''tua culpa''
affollarono i parrucchieri.
Nell'assolata galera patria
il secondo secondino
disse a 'Baffi di Sego' (**), che era il primo:
"si può fare domani sul far del mattino"
e furono inviati messi,
fanti, cavalli, cani ed un somaro
ad annunciare l'amputazione della gamba
di Renato Curcio,
il carbonaro.
Il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni:
"voglio vivere in una città
dove all'ora dell'aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo".
A tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
in questa famosa città civile,
perché avevamo un cannone nel cortile,
un cannone nel cortile...
La Domenica delle Salme
nessuno si fece male,
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale;
la Domenica delle Salme
si sentiva cantare
"quant'è bella giovinezza,
non vogliamo più invecchiare".
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe,
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz'oretta,
poi ci mandarono a cagare:
"voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio,
coi pianoforti a tracolla, vestiti da Pinocchio,
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti,
per l'Amazzonia e per la pecunia,
nei palastilisti,
e dai padri Maristi;
voi avevate voci potenti,
lingue allenate a battere il tamburo,
voi avevate voci potenti:
adatte per il vaffanculo".
La Domenica delle Salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia;
la Domenica delle Salme
fu una domenica come tante,
il giorno dopo c'erano i segni
di una pace terrificante.
Mentre il cuore d'Italia,
da Palermo ad Aosta,
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta.
(*) - "Baggìna": così viene anche chiamata la Casa di Riposo per anziani ''Pio Albergo Trivulzio" di Milano.
(**) - "Baffi di Sego": gendarme austriaco di una satira di Giuseppe Giusti.

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'A Çimma
(Testo: Fabrizio De André e Ivano Fossati; Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Ti t'adesciàe 'nsce l'èndegu du matin,
ch'à luxe a l'à 'n pè 'n tera e l'àtru in mà,
ti t'ammiâe a uo spégiu de 'n tianin,
ou çé s'amnià a ou spegiu dâ ruzà.
Ti mettiàe ou brùgu rèdennu 'nte 'n cantùn,
che se d'à cappa a sgùggia 'n cuxin-a 'a stria,
a xeùa de cuntà 'e pàgge che ghe sùn,
'a çimma a l'è za pinn-a, a l'è za cùxia.
Cè serèn, tèra scùa,
carne tènia, nu fàte nèigra,
nu turnà dùa.
Bell'oueggè, strapunta de tùttu bun,
prima de battezàla 'ntou prebuggiun,
cun dui aguggiuìn dritu 'n pùnta de pè
da sùrvia 'n zù fitu ti 'a punziggè.
Àia de lùn-a vègia, de ciaèu, de nègia,
ch'ou cègu ou pèrde 'a tèsta, l'àse ou sentè,
oudù de mà misciòu de pèrsa lègia,
cos'àtru fa, cos'àtru dàghe a ou cè?
Cè serèn, tèra scùa,
carne tènia, nu fàte nèigra,
nu turnà dùa;
e 'nt'ou nùme de Maria
tùtti i diài da sta pùgnatta
anène via.
Poi vegnan a pigiàtela i càmè,
te lascian tùttu ou fùmmu d'ou toèu mestè,
tucca a ou fantin à prima coutelà:
mangè, mangè, nu sèi chi ve mangià.
Cè serèn, tèra scùa,
carne tènia, nu fàte nèigra,
nu turnà dùa;
e 'nt'ou nùme de Maria
tùtti i diài da sta pùgnatta
anène via.

Traduzione dal genovese: "La Cima"
Ti sveglierai sull'indaco del mattino,
quando la luce ha un piede in terra e l' altro in mare,
ti guarderai allo specchio di un tegamino,
il cielo si guarderà allo specchio della rugiada.
Metterai la scopa dritta in un angolo,
chè se dalla cappa scivola in cucina la strega
a forza di contare le paglie che ci sono,
la cima è già piena, è già cucita.
Cielo sereno, terra scura,
carne tenera, non diventare nera,
non ritornare dura.
Bel guanciale, materasso di ogni ben di Dio,
prima di battezzarla nelle erbe aromatiche,
con due grossi aghi dritti in punta di piedi
da sopra a sotto svelto la pungerai.
Aria di luna vecchia, di chiarore, di nebbia,
che il chierico perde la testa e l'asino il sentiero,
odore di mare mescolato a maggiorana leggera,
cos'altro fare, cos'altro dare al cielo?
Cielo sereno, terra scura,
carne tenera, non diventare nera,
non ritornare dura;
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via.
Poi vengono a prendertela i camerieri,
ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere,
tocca allo scapolo la prima coltellata:
mangiate, mangiate, non sapete chi vi mangerà.
Cielo sereno, terra scura,
carne tenera, non diventare nera,
non ritornare dura;
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via.

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Don Raffae'
(Testo: Fabrizio De André e Massimo Bubola; Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son bbrigadiero del carcere, ohinè,
io mi chiamo Cafiero Pasquale
e sto a Poggio Reale dal cinquantatrè;
e al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio,
per fortuna ch'al braccio speciale
c'è un uomo geniale che parla co' me.
Tutto il giorno con quattro infamoni,
briganti, papponi, cornuti e lacchè,
tutte l'ore co' 'sta fetenzìa
che sputa, minaccia e sa 'a piglia co' me,
ma alla fine m'assetto papale,
mi sbottono e mi leggo 'o giornale,
mi consiglio con Don Raffae',
mi spiega che penso e bevimm'o' cafè.
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella,
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
Prima pagina: venti notizie,
ventun ingiustizie e lo Stato che fa?
Si costerna, s'indigna, s'impegna,
poi getta la spugna con gran dignità;
mi scervello e m'asciugo la fronte,
per fortuna c'è chi mi risponde,
a quell'uomo sceltissimo e immenso
io chiedo consenso a Don Raffae'.
Un galantuomo che tiene sei figli,
ha chiesto una casa e ci danno consigli,
mentre 'o assessore, che Dio lo perdoni,
'ndrento a 'e roullotte ci alleva i visoni;
voi vi basta una mossa, una voce,
ch'a 'sto Cristo ci lèvan 'a croce,
con rispetto s'è fatto le tre:
volìte 'a spremuta o volìte 'o cafè?
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella,
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta di Ciccirinella,
compagno di cella,
precisa a mammà.
'Ccà ci sta l'inflazione, la svalutazione
e la borsa ce l'ha chi ce l'ha,
io non tengo compendio che chillo stipendio
e un ambo se sogno 'a papà:
aggiungete mia figlia Innocenza,
vuo' marito e non tiene pazienza,
non vi chiedo la grazia pe' mme,
vi faccio la barba o la fate da sè?
Voi tenete un cappotto cammello
ch'al maxi-processo eravate 'o cchiù bbello,
un vestito gessato marrone,
così cc'è sembrato alla televisione:
pe' 'ste nozze, vi prego Eccellenza,
m'ii prestasse pe' fare presenza,
io già tengo le scarpe e 'o gillè,
gradite 'o Campari o volìte 'o cafè?
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella,
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta di Ciccirinella,
compagno di cella,
precisa a mammà.
Qui non c'è più decoro, le carceri d'oro
ma chi l'ha mai viste chissà:
chiste so' fatiscenti e pe' chisto i fetienti
se tengono l'immunità;
Don Raffaè, voi politicamente,
io ve lo giuro sarebbe 'nu santo,
ma 'ca ddìnto voi state a pagà
e fori chiss'atre se stanno a spassà.
A proposito tengo 'nu frate
che da quindici anni sta disoccupato
e s'è fatto cinquanta concorsi,
novanta domande e duecento ricorsi;
voi che date conforto e lavoro,
Eminenza vi bacio e v'imploro:
chille duorme co' mamma e co' me,
che crema d'Arabia ch'è chisto cafè!

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Khorakhanè (A Forza Di Essere Vento)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Ivano Fossati)
Il cuore rallenta e la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento,
a quel campo strappato dal vento,
a forza di essere vento.
Porto il nome di tutti i battesimi,
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado, una terra, una nuvola, un canto,
un diamante nascosto nel pane,
per un solo dolcissimo umore del sangue,
per la stessa ragione del viaggio: viaggiare.
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso,
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro;
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano,
i segreti che fanno paura,
finchè un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace.
I figli cadevano dal calendario,
Iugoslavia, Polonia, Ungheria:
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via;
e poi Mirka a San Giorgio (*) di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere e a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi,
e dagli occhi cadere.
Ora alzatevi, spose bambine,
che è venuto il tempo di andare:
con le vene celesti dei polsi,
anche oggi si va a caritare;
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e fortuna,
allo specchio di questa kampina (**),
ai miei occhi limpidi come un addio,
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.
Cvava sero po tute (Poserò la testa sulla tua spalla)
i kerava (e farò)
jek sano ot mori (un sogno di mare)
i taha jek jak kon kasta (e domani un fuoco di legna)
vasu ti baro nebo (perché l'aria azzurra)
avi ker. (diventi casa).
Kon ovla so mutavia, (Chi sarà a raccontare)
kon ovla, (chi sarà)
ovla kon ascovi. (sarà chi rimane).
Me gava palan ladi, (Io seguirò questo migrare)
me gava (seguirò)
palan bura ot croiuti. (questa corrente di ali).
"Khorakhanè": Tribù rom di provenienza serbo-montenegrina.
Traduzione di Giorgio Bozzecchi (rom harvato).
(*) - "San Giorgio": Festa annuale del popolo rom nel sud della Francia.
(**) - "Kampina": Baracca da campo dei rom.

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Prinçesa
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Ivano Fossati)
Sono la pecora, sono la vacca,
che agli animali si vuol giocare,
sono la femmina "camicia aperta",
piccole tette da succhiare.
Sotto le ciglia di questi alberi,
nel chiaroscuro dove son nato,
che l'orizzonte prima del cielo
ero lo sguardo di mia madre,
"che Fernandiño è come una figlia,
mi porta a letto caffè e tapioca,
e a ricordargli che è nato maschio
sarà l'istinto sarà la vita";
e io davanti allo specchio grande
mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi
tra le gambe una minuscola fica.
Nel dormiveglia della corriera
lascio l'infanzia contadina,
corro all'incanto dei desideri,
vado a correggere la fortuna;
nella cucina della pensione
mescolo i sogni con gli ormoni,
ad albeggiare sarà magia,
saranno seni miracolosi,
perché Fernanda è proprio una figlia,
come una figlia vuol far l'amore,
ma Fernandiño resiste e vomita
e si contorce dal dolore;
e allora il bisturi per seni e fianchi,
una vertigine di anestesia,
finché il mio corpo mi rassomigli
sul lungomare di Bahia.
Sorriso tenero di verdefoglia,
dai suoi capelli sfilo le dita
quando le macchine puntano i fari
sul palcoscenico della mia vita,
dove tra ingorghi di desideri
alle mie natiche un maschio s'appende,
nella mia carne, tra le mie labbra
un uomo scivola, l'altro s'arrende;
che Fernandiño mi è morto in grembo,
Fernanda è una bambola di seta,
sono le braci di un'unica stella
che squilla di luce di nome Prinçesa.
A un avvocato di Milano
ora Prinçesa regala il cuore
e un passeggiare recidivo
nella penombra di un balcone.
O matu (la campagna)
o cèu (il cielo)
a senda (il sentiero)
a escola (la scuola)
a igreja (la chiesa)
a desonra (la vergogna)
a saia (la gonna)
o esmalte (lo smalto)
o espelho (lo specchio)
o batòn (il rossetto)
o medo (la paura)
a rua (la strada)
a bombadeira (la modellatrice)
a vertigem (la vertigine)
o encanto (l'incantesimo)
a magia(la magia)
os carros (le macchine)
a polìcia (la polizia)
a canseira (la stanchezza)
o brio (la dignità)
o noivo (il fidanzato)
o capanga (lo sgherro)
o fidalgo (il gransignore)
o porcalhao (lo sporcaccione)
o azar (la sfortuna)
a bebedeira (la sbronza)
as pancadas (le botte)
os carinhos (le carezze)
a falta (il fallimento)
o nojo (lo schifo)
a formusura (la bellezza)
vivèr. (vivere).
"Prinçesa" è liberamente tratta dall'omonimo romanzo-intervista di Maurizio Jannelli a Fernanda Farias De Albuquerque.

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Ho Visto Nina Volare
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Ivano Fossati)
Mastica e sputa
da una parte il miele,
mastica e sputa
dall'altra la cera,
mastica e sputa
prima che venga neve.
Luce, luce lontana,
più bassa delle stelle:
sarà la stessa mano
che ti accende e ti spegne?
Ho visto Nina volare
tra le corde dell'altalena,
un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena.
E se lo sa mio padre
dovrò cambiar paese,
se mio padre lo sa
mi imbarcherò sul mare.
Mastica e sputa
da una parte il miele,
mastica e sputa
dall'altra la cera,
mastica e sputa
prima che faccia neve.
Stanotte è venuta l'ombra,
l'ombra che mi fa il verso,
le ho mostrato il coltello
e la mia maschera di gelso.
E se lo sa mio padre
mi metterò in cammino,
se mio padre lo sa
mi imbarcherò lontano.
Mastica e sputa
da una parte la cera,
mastica e sputa
dall'altra parte il miele,
mastica e sputa
prima che metta neve.
Ho visto Nina volare
tra le corde dell'altalena,
un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena.
Luce, luce lontana,
che si accende e si spegne:
quale sarà la mano
che illumina le stelle?
Mastica e sputa
prima che venga neve.

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Anime Salve
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Ivano Fossati; cantata a due voci con Ivano Fossati)
Mille anni al mondo, mille ancora:
che bell'inganno sei, anima mia,
e che bello il mio tempo, che bella compagnia.
Sono giorni di finestre adornate,
canti di stagione,
anime salve in terra e in mare.
Sono state giornate furibonde,
senza atti d'amore,
senza calma di vento,
solo passaggi e passaggi,
passaggi di tempo.
Ore infinite come costellazioni e onde,
spietate come gli occhi della memoria,
altra memoria e non basta ancora,
cose svanite, facce, e poi il futuro.
I futuri incontri di belle amanti scellerate
saranno scontri,
saranno cacce coi cani e coi cinghiali,
saranno rincorse, morsi e affanni per mille anni.
Mille anni al mondo, mille ancora:
che bell'inganno sei, anima mia,
e che grande il mio tempo, che bella compagnia.
Mi sono spiato illudermi e fallire,
abortire i figli come i sogni,
mi sono guardato piangere in uno specchio di neve,
mi sono visto che ridevo,
mi sono visto di spalle che partivo.
Ti saluto dai paesi di domani
che sono visioni di anime contadine
in volo per il mondo.
Mille anni al mondo, mille ancora:
che bell'inganno sei, anima mia,
e che grande questo tempo, che solitudine,
che bella compagnia.

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Smisurata Preghiera
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Ivano Fossati)
Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri,
china e distante sugli elementi del disastro,
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà, di impunità.
Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera,
la maggioranza sta, la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine,
di millenarie paure,
di inesauribili astuzie,
coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie,
la maggioranza sta,
come una malattia,
come una sfortuna,
come un'anestesia,
come un'abitudine.
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore,
di umanità, di verità.
Per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità.
Ricorda, Signore, questi servi disobbedienti
alle leggi del branco,
non dimenticare il loro volto,
ché dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti,
come una svista,
come un'anomalia,
come una distrazione,
come un dovere.

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Cose Che Dimentico
(Testo e Musica: Fabrizio De André, Cristiano De André, Carlo Facchini)
C'è un amore nella sabbia,
un amore che vorrei,
un amore che non cerco
perché poi lo perderei.
C'è un amore alla finestra
tra le stelle e il marciapiede,
non è in cerca di promesse
e ti dà quello che chiede.
Cose che dimentico,
cose che dimentico,
sono cose che dimentico.
C'è un amore che si incendia
quando appena lo conosci,
un'identica fortuna
da gridare a due voci.
C'è un termometro del cuore
che non rispettiamo mai,
un avviso di dolore,
un sentiero in mezzo ai guai.
Cose che dimentico,
sono cose che dimentico.
Qui nel reparto intoccabili,
dove la vita ci sembra enorme
perché non cerca più e non chiede,
perché non crede più e non dorme.
Qui nel girone invisibili,
per un capriccio del cielo
viviamo come destini
e tutti ne sentiamo il gelo,
il gelo,
e tutti ne sentiamo il gelo.
C'è un amore che ci stringe
e quando stringe ci fa male,
un amore avanti e indietro
da una bolgia di ospedale.
Un amore che mi ha chiesto
un dolore uguale al mio,
a un amore così intero
non vorrei mai dire addio.
Cose che dimentico,
sono cose che dimentico.
Qui nel reparto intoccabili,
dove la vita ci sembra enorme
perché non cerca più e non chiede,
perché non crede più e non dorme,
non dorme.
Qui nel girone invisibili,
per un capriccio dei cielo
viviamo come destini
e tutti ne sentiamo il gelo,
il gelo.
Viviamo come destini
e tutti ne sentiamo il gelo,
il gelo.
Sono cose che dimentico,
sono cose che dimentico,
cose che dimentico,
sono cose che dimentico.

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