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25

Fabrizio De André - Album
1991: Concerti

Album doppio

  Don Raffae'
La Domenica Delle Salme
Fiume Sand Creek
Hotel Supramonte
Se Ti Tagliassero A Pezzetti
Il Gorilla
La Canzone Dell'Amore Perduto
Il Testamento Di Tito
La Canzone Di Marinella
Creuza De Mä
Jamin-a
Sidùn
Mégu Megùn
'A Pittima
'A Dumenega
'A Çimma
Sinàn Capudàn Pascià
Le Nuvole

Don Raffae' (Live 1991)
(Testo: Fabrizio De André e Massimo Bubola; Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son bbrigadiero del carcere, ohinè,
io mi chiamo Cafiero Pasquale
e sto a Poggio Reale dal cinquantatrè;
e al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio,
per fortuna ch'al braccio speciale
c'è un uomo geniale che parla co' me.
Tutto il giorno con quattro infamoni,
briganti, papponi, cornuti e lacchè,
tutte l'ore co' 'sta fetenzìa
che sputa, minaccia e sa 'a piglia co' me,
ma alla fine m'assetto papale,
mi sbottono e mi leggo 'o giornale,
mi consiglio con Don Raffae',
mi spiega che penso e bevimm'o' cafè.
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella,
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
Prima pagina: venti notizie,
ventun ingiustizie e lo Stato che fa?
Si costerna, s'indigna, s'impegna,
poi getta la spugna con gran dignità;
mi scervello e m'asciugo la fronte,
per fortuna c'è chi mi risponde,
a quell'uomo sceltissimo e immenso
io chiedo consenso a Don Raffae'.
Un galantuomo che tiene sei figli,
ha chiesto una casa e ci danno consigli,
mentre 'o assessore, che Dio lo perdoni,
'ndrento a 'e roullotte ci alleva i visoni;
voi vi basta una mossa, una voce,
ch'a 'sto Cristo ci lèvan 'a croce,
con rispetto s'è fatto le tre:
volìte 'a spremuta o volìte 'o cafè?
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella,
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta di Ciccirinella,
compagno di cella,
precisa a mammà.
'Ccà ci sta l'inflazione, la svalutazione
e la borsa ce l'ha chi ce l'ha,
io non tengo compendio che chillo stipendio
e un ambo se sogno 'a papà:
aggiungete mia figlia Innocenza,
vuo' marito e non tiene pazienza,
non vi chiedo la grazia pe' mme,
vi faccio la barba o la fate da sè?
Voi tenete un cappotto cammello
ch'al maxi-processo eravate 'o cchiù bbello,
un vestito gessato marrone,
così cc'è sembrato alla televisione:
pe' 'ste nozze, vi prego Eccellenza,
m'ii prestasse pe' fare presenza,
io già tengo le scarpe e 'o gillè,
gradite 'o Campari o volìte 'o cafè?
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella,
compagno di cella,
ci ha dato mammà.
Ah, che bell'o' cafè,
pure in carcere 'o sanno fa',
co' 'a ricetta di Ciccirinella,
compagno di cella,
precisa a mammà.
Qua non c'è più decoro, le carceri d'oro
ma chi l'ha mai viste chissà:
chiste so' fatiscenti e pe' chisto i fetienti
se tengono l'immunità;
Don Raffaè, voi politicamente,
io ve lo giuro sarebbe 'nu santo,
ma 'ca ddìnto voi state a pagà
e fori chiss'atre se stanno a spassà.
A proposito tengo 'nu frate
che da quindici anni sta disoccupato
chill'ha fatto cinquanta concorsi,
novanta domande e duecento ricorsi;
voi che date conforto e lavoro,
Eminenza vi bacio e v'imploro:
chille duorme co' mamma e co' me,
che crema d'Arabia ch'è chisto cafè!

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La Domenica Delle Salme (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia d'orzata
dove galleggia Milano;
non fu difficile seguirlo,
il poeta della Baggìna (*):
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina;
gli incendiarono il letto
sulla strada di Trento,
riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento.
I Polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime,
lanciate verso il mare;
i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est:
chi si convertiva nel Novanta
ne era dispensato nel Novantuno;
la scimmia del Quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutti il culo;
la Piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa,
masso per masso,
schiavo per schiavo,
comunista per comunista.
La Domenica delle Salme
non si udirono fucilate,
il gas esilarante
presidiava le strade;
la Domenica delle Salme
si portò via tutti i pensieri
e le regine del ''tua culpa''
affollarono i parrucchieri.
Nell'assolata galera patria
il secondo secondino
disse a 'Baffi di Sego' (**), che era il primo:
"si può fare domani sul far del mattino"
e furono inviati messi,
fanti, cavalli, cani ed un somaro
ad annunciare l'amputazione della gamba
di Renato Curcio,
il carbonaro.
Il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni:
"voglio vivere in una città
dove all'ora dell'aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo".
A tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile,
perché avevamo un cannone nel cortile,
un cannone nel cortile...
La Domenica delle Salme
nessuno si fece male,
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale;
la Domenica delle Salme
si sentiva cantare
"quant'è bella giovinezza,
non vogliamo più invecchiare".
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe,
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz'oretta,
poi ci mandarono a cagare:
"voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio,
coi pianoforti a tracolla, vestiti da Pinocchio,
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti,
per l'Amazzonia e per la pecunia,
nei palastilisti,
e dai padri Maristi;
voi avevate voci potenti,
lingue allenate a battere il tamburo,
voi avevate voci potenti:
adatte per il vaffanculo".
La Domenica delle Salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia;
la Domenica delle Salme
fu una domenica come tante,
il giorno dopo c'erano i segni
di una pace terrificante.
Mentre il cuore d'Italia,
da Palermo ad Aosta,
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta.
(*) - "Baggìna": così viene anche chiamata la Casa di Riposo per anziani ''Pio Albergo Trivulzio" di Milano.
(**) - "Baffi di Sego": gendarme austriaco di una satira di Giuseppe Giusti.

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Fiume Sand Creek (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura,
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura,
fu un generale di vent'anni,
occhi turchini e giacca uguale;
fu un generale di vent'anni,
figlio d'un temporale.
C'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
e quella musica distante diventò sempre più forte,
chiusi gli occhi per tre volte,
mi ritrovai ancora lì;
chiesi a mio nonno "è solo un sogno?",
mio nonno disse "sì".
A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek.
Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso,
il lampo in un orecchio, nell'altro il Paradiso,
le lacrime più piccole,
le lacrime più grosse
quando l'albero della neve
fiorì di stelle rosse.
Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek.
Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
c'erano solo cani e fumo e tende capovolte,
tirai una freccia in cielo
per farlo respirare,
tirai una freccia al vento
per farlo sanguinare.
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek.
Si son presi i nostri cuori sotto una coperta scura,
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura,
fu un generale di vent'anni,
occhi turchini e giacca uguale;
fu un generale di vent'anni,
figlio d'un temporale.
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek.

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Hotel Supramonte (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
E se vai all'Hotel Supramonte e guardi il cielo,
tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo
e una lettera vera di notte, falsa di giorno
e poi scuse e accuse e scuse senza ritorno.
E ora viaggi, ridi, vivi o sei perduta,
col tuo ordine discreto dentro il cuore.
Ma dove, dov'è il tuo amore? Ma dove hai lasciato il tuo amore?
Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile,
grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere
e un invito all'Hotel Supramonte dove ho visto la neve,
sul tuo corpo così dolce di fame, così dolce di sete.
Passerà anche questa stazione senza far male,
passerà questa pioggia sottile come passa il dolore.
Ma dove, dov'è il tuo cuore? Ma dove hai lasciato il tuo cuore?
E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome,
ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme;
ma se ti svegli e hai ancora paura, ridammi la mano,
cosa importa se sono caduto, se sono lontano?
Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole,
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole.
Ma dove, dov'è il tuo amore? Ma dove hai lasciato il tuo amore?

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Se Ti Tagliassero A Pezzetti (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Massimo Bubola)
Se ti tagliassero a pezzetti,
il vento li raccoglierebbe,
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di un Dio,
di un Dio il sorriso.
Ti ho trovata lungo il fiume
che suonavi una foglia di fiore,
che cantavi parole leggere, parole d'amore;
ho assaggiato le tue labbra di miele rosso rosso,
ti ho detto "dammi quello che vuoi, io quel che posso".
Rosa gialla, rosa di rame,
mai ballato così a lungo
sopra il filo della notte, sulle pietre del giorno;
io suonatore di chitarra, io suonatore di mandolino,
alla fine siamo caduti sopra il fieno.
Persa per molto, persa per poco,
preso sul serio, preso per gioco,
non c'è stato molto da dire o da pensare,
la fortuna sorrideva come uno stagno a primavera,
spettinata da tutti i venti della sera.
E adesso aspetterò domani per avere nostalgia,
signora Libertà, signorina Anarchia,
così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza,
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza.
T'ho incrociata alla stazione
che inseguivi il tuo profumo,
presa in trappola da un tailleur grigio fumo,
i giornali in una mano e nell'altra il tuo destino,
camminavi fianco a fianco al tuo assassino.
Ma se ti tagliassero a pezzetti,
il vento li raccoglierebbe,
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna, la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di un Dio,
di un Dio il sorriso.

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Il Gorilla (Live 1991)
(Testo italiano: Fabrizio De André; Testo e Musica originali: Georges Brassens, "Le Gorille")
Sulla piazza d'una città
la gente guardava con ammirazione
un gorilla portato là
dagli zingari d'un baraccone;
con poco senso del pudore
le comari di quel rione
contemplavano l'animale
non dico come, non dico dove.
Attenti al gorilla!
D'improvviso la grossa gabbia
dove viveva l'animale
s'aprì di schianto, non so perché,
forse l'avevano chiusa male;
la bestia, uscendo fuori di là,
disse: "quest'oggi me la levo",
parlava della verginità
di cui ancora viveva schiavo.
Attenti al gorilla!
Il padrone si mise a urlare
"il mio gorilla, fate attenzione,
non ha veduto mai una scimmia,
potrebbe fare confusione";
tutti i presenti a questo punto
fuggirono in ogni direzione,
anche le donne, dimostrando
la differenza tra idea e azione.
Attenti al gorilla!
Tutta la gente corre di fretta
di qua e di là con grande foga,
s'attardano solo una vecchietta
e un giovane giudice con la toga;
visto che gli altri avevan squagliato,
il quadrumane accelerò
e sulla vecchia e sul magistrato
con quattro salti si portò.
Attenti al gorilla!
"Bah", sospirò pensando la vecchia,
"ch'io fossi ancora desiderata
sarebbe cosa alquanto strana
e più che altro non sperata";
"Che mi si prenda per una scimmia",
pensava il giudice col fiato corto,
"non è possibile, questo è sicuro",
il seguito prova che aveva torto.
Attenti al gorilla!
Se qualcuno di voi dovesse,
costretto con le spalle al muro,
violare un giudice od una vecchia,
della sua scelta sarei sicuro;
ma si dà il caso che il gorilla,
considerato un grandioso fusto,
per chi l'ha provato però non brilla
né per lo spirito né per il gusto.
Attenti al gorilla!
Infatti lui, sdegnata la vecchia,
si dirige sul magistrato,
lo acchiappa forte per un'orecchia
e lo trascina in mezzo a un prato;
quel che successe tra l'erba alta
non posso dirlo per intero,
ma lo spettacolo fu avvincente
e lo "suspance" ci fu davvero.
Attenti al gorilla!
Dirò soltanto che sul più bello
dell'incredibile e cupo dramma
piangeva il giudice come un vitello,
negli intervalli gridava "mamma",
gridava "mamma" come quel tale
cui il giorno prima come ad un pollo
con una sentenza un po' originale
aveva fatto tagliare il collo.
Attenti al gorilla!

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La Canzone Dell'Amore Perduto (Live 1991)
(Testo: Fabrizio De André; Musica: Sulla melodia del "Concerto in Re Maggiore" di Georg Philipp Telemann)
Ricordi, sbocciavan le viole
con le nostre parole
"non ci lasceremo mai, mai e poi mai";
vorrei dirti ora le stesse cose,
ma, come fan presto, amore, ad appassire le rose,
così per noi
l'amore che strappa i capelli è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po' di tenerezza.
E quando ti troverai in mano
quei fiori appassiti al sole
d'un aprile ormai lontano,
li rimpiangerai,
ma sarà la prima che incontri per strada
che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.
E sarà la prima che incontri per strada
che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.

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Il Testamento Di Tito (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
"Non avrai altro Dio all'infuori di me",
spesso mi ha fatto pensare;
genti diverse venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale:
credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male;
credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
"Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano":
con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore;
ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.
"Onora il padre e onora la madre
e onora anche il loro bastone",
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore,
non ho provato dolore;
quando a mio padre si fermò il cuore,
non ho provato dolore.
"Ricorda di santificare le feste":
facile, per noi ladroni,
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni,
senza finire legati agli altari,
sgozzati come animali;
senza finire legati agli altari,
sgozzati come animali.
Il quinto dice "non devi rubare"
e forse io l'ho rispettato,
vuotando in silenzio le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio;
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio.
"Non commettere atti che non siano puri",
cioè non disperdere il seme,
feconda una donna ogni volta che l'ami,
così sarai uomo di fede;
poi la voglia svanisce e il figlio rimane,
e tanti ne uccide la fame,
io, forse, ho confuso il piacere e l'amore,
ma non ho creato dolore.
Il settimo dice "non devi ammazzare,
se del cielo vuoi essere degno":
guardàtela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno,
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno;
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno.
"Non dire falsa testimonianza"
e aiutali a uccidere un uomo;
lo sanno a memoria il diritto divino
e scordano sempre il perdono:
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e, no, non ne provo dolore;
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e, no, non ne provo dolore.
"Non desiderare la roba degli altri",
"non desiderarne la sposa":
ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:
nei letti degli altri già caldi d'amore
non ho provato dolore;
l'invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.
Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest'uomo che muore,
madre, io provo dolore;
nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l'amore.

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La Canzone Di Marinella (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera,
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.
Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore,
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta.
Bianco come la luna è il suo cappello,
come l'amore rosso il suo mantello,
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue l'aquilone.
E c'era il sole e avevi gli occhi belli,
lui ti baciò le labbra ed i capelli;
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi,
lui pose le sue mani sui tuoi fianchi.
Furono baci e furono sorrisi,
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle.
Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta.
Questa è la tua canzone, Marinella,
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose;
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.

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Creuza De Mä (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Umbre de muri, muri de mainé:
dunde ne vegnì, duve l'è ch'ané?
Da 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa
e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua,
e a muntä l'àseo gh'é restou Diu:
u Diàu l'é in çë e u s'è gh'è faetu u nìu;
ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria
a a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria.
E 'nt'a cä de pria chi ghe saià,
int'à cä du Dria che u nu l'è mainà?
Gente de Lûgan, facce de mandillä,
quei che du luassu preferiscian l'ä,
figge de famiggia, udù de bun,
che ti peu ammiàle sensa u gundun.
E a 'ste panse veue cose che daià,
cose da beive, cose da mangiä?
Frittûa de pigneu, giancu de Purtufin,
çervelle de bae 'nt'u meximu vin,
lasagne da fiddià ai quattru tucchi,
paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi (*).
E 'nsc'ià barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi,
emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi,
finché u matin crescià da puéilu rechéugge,
frè di ganeuffani e de figge,
bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza (**) de mä.
(*) - "Lévre de cuppi": Gatto.
(**) - "Creuza": Qui impropriamente tradotto "mulattiera". In realtà la Creuza è nel genovesato una strada suburbana che scorre fra due muri che solitamente determinano i confini di proprietà.

Traduzione dal genovese: "Mulattiera Di Mare"
Ombre di facce, facce di marinai:
da dove venite, dov'è che andate?
Da un posto dove la luna si mostra nuda
e la notte ci ha puntato il coltello alla gola,
e a montare l'asino c'è rimasto Dio:
il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido;
usciamo dal mare per asciugare le ossa dell'Andrea
alla fontana dei colombi nella casa di pietra.
E nella casa di pietra chi ci sarà,
nella casa dell'Andrea che non è marinaio?
Gente di Lugano, facce da tagliaborse,
quelli che della spigola preferiscono l'ala,
ragazze di famiglia, odore di buono,
che puoi guardarle senza preservativo.
E a queste pance vuote cosa gli darà,
cosa da bere, cosa da mangiare?
Frittura di pesciolini, bianco di Portofino,
cervelle di agnello nello stesso vino,
lasagne da tagliare ai quattro sughi,
pasticcio in agrodolce di lepre di tegole.
E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli,
emigranti della risata con i chiodi negli occhi,
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere,
fratello dei garofani e delle ragazze,
padrone della corda marcia d'acqua e di sale
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.

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Jamin-a (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Lengua 'nfeuga, Jamin-a,
lua de pelle scûa,
cu'a bucca spalancà,
morsciu de carne dûa,
stella neigra ch'a lûxe,
me veuggiu demuâ
'nte l'ûmidu duçe
de l'amë dû teu arveà.
Ma seu, Jamin-a,
ti me perdunié
se nu riûsciò a ésse porcu
cumme i teu pensë;
destacchete, Jamin-a,
lerfe de ûga spin-a,
fatt'ammiâ, Jamin-a,
roggiu de mussa pin-a
e u muru 'ntu sûù
sûgu de sä de cheusce
duve gh'è pei gh'è amù sultan-a de e bagascie,
dagghe cianìn, Jamin-a,
nu navegâ de spunda,
primma ch'à cuæ' ch'à munta e a chin-a
nu me se desfe 'nte l'unda,
e l'ûrtimu respiu, Jamin-a,
regin-a muaé de e sambe,
me u tegnu pe sciurtï vivu
da u gruppu de e teu gambe.
E l'ûrtimu respiu, Jamin-a,
regin-a muaé de e sambe,
me u tegnu pe sciurtï vivu
da u gruppu de e teu gambe.
E l'ûrtimu respiu, Jamin-a,
regin-a muaé de e sambe,
me u tegnu pe sciurtï vivu
da u gruppu de e teu gambe.

Traduzione dal genovese: "Jamina"
Lingua infuocata, Jamina,
lupa di pelle scura,
con la bocca spalancata,
morso di carne soda,
stella nera che brilla,
mi voglio divertire
nell'umido dolce
del miele del tuo alveare.
Sorella mia, Jamina,
mi perdonerai
se non riuscirò a essere porco
come i tuoi pensieri;
staccati, Jamina,
labbra di uva spina,
fatti guardare, Jamina,
getto di fica sazia,
e la faccia nel sudore,
sugo di sale di cosce,
dove c'è pelo c'è amore,
sultana delle troie,
dacci piano, Jamina,
non navigare di sponda,
prima che la voglia che sale e scende
non mi si disfi nell'onda
e l'ultimo respiro, Jamina,
regina madre delle sambe,
me lo tengo per uscire vivo
dal nodo delle tue gambe.
E l'ultimo respiro, Jamina,
regina madre delle sambe,
me lo tengo per uscire vivo
dal nodo delle tue gambe.
E l'ultimo respiro, Jamina,
regina madre delle sambe,
me lo tengo per uscire vivo
dal nodo delle tue gambe.

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Sidùn (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
U mæ ninìn, u mæ,
u mæ,
lerfe grasse au su
d'amë, d'amë,
tûmù duçe benignu
de teu muaè,
spremmûu 'nta maccaia
de staë, de staë;
e oua grûmmu de sangue ouëge
e denti de laete,
e i euggi di surdatti, chen arraggë
cu'a scciûmma a a bucca, cacciuéi de baë,
a scurrï a gente cumme selvaggin-a
finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué,
e doppu u feru in gua, i feri d'ä prixún
e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún
perché de nostru da a cianûa a u meü
nu peua ciû cresce ni ærbu, ni spica, ni figgeü.
Ciao, mæ 'nin; l'eredítaë
l'è ascusa
'nte sta çittaë
ch'a brûxa, ch'a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a.

Traduzione dal genovese: "Sidone"
Il mio bambino, il mio,
il mio,
labbra grasse al sole
di miele, di miele,
tumore dolce benigno
di tua madre,
spremuto nell'afa umida
dell'estate, dell'estate;
e ora grumo di sangue orecchie
e denti da latte,
e gli occhi dei soldati, cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca, cacciatori di agnelli,
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non ha spento loro la voglia,
e dopo il ferro in gola, i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
perché di nostro dalla pianura al mare
non possa più crescere albero, né spiga, né figlio.
Ciao, bambino mio; l'eredità
è nascosta
in questa città
che brucia, che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte.

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Mégu Megùn (Live 1991)
(Testo: Fabrizio De André e Ivano Fossati; Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
E mi, e mi, e mi
e anà, e anà
e a l'aia sciurtì
e suà, suà
e ou coèu, ou coèu, ou coèu
da rebellà
fin a piggià, piggià
ou trèn, ou trèn.
E 'nta galleria
gentè 'a l'intra au scùu,
sciòrte amarutìa,
loèugu de 'n spesià,
e 'ntu strèitu t'aguèitan,
te dumàndan chi t'è,
a sustànsa e ou mestè
che pe' liatri ou viaggià ou nu l'è;
poi te tùcca 'n purtè lepegùsu
e 'na stànsia lùvega
e 'nte l'àtra stànsia
è bagàsce a dà ou menù
e ti cu'na quàe che nu ti voèu
a tià a bibbia 'nta miàgia,
serrà a ciàve ànche ou barcùn
e arensenìte sùrvia ou coèu.
Uh... mègu, mègu, mègu, mè megùn;
uh... chin-a, chin-a zù da ou caregùn.
'Na carèga dùa,
nèsciu de 'n turtà,
'na fainà ch'a sùa
e a ghe manca 'a sa,
tùtti sùssa rèsca,
da ou xàtta in zù,
se ti gii 'a tèsta
ti te vèddi ou cù,
e a stà foèa gh'è ou repentin
ch'a te tùcche 'na pasciùn
pe 'na faccia da madònna
ch'a te sposta ou ghirindùn,
ùn amù mai in esclusiva,
sempre cun quarcòsa da pagà,
na scignurin-a che sùttu à cùa
a gh'a ou gàrbu da scignùa.
Uh... mègu, mègu, mègu, mè megùn;
uh... chin-a, chin-a zù da ou caregùn.
Uh... che belin de 'n nolu che ti me faièsci fa;
uh... ch'a sùn de piggià de l'aia se va a l'uspià.
E mi, e mi, e mi
nu anà, nu anà
stà chi, stà chi, stà chi
durmì, durmì;
E mi, e mi, e mi
nu anà, nu anà
stà chi, stà chi, stà chi,
asùnàme.
Uh... mègu, mègu, mègu, mè megùn;
uh... chin-a, chin-a zù da ou caregùn.
Uh... mègu, mègu, mègu, mè megùn;
uh... chin-a, chin-a zù da ou caregùn.
Uh... mègu, mègu, mègu, mè megùn;
uh... chin-a, chin-a zù da ou caregùn.
Uh... mègu, mègu, mègu, mè megùn;
uh... chin-a, chin-a zù da ou caregùn.

Traduzione dal genovese: "Medico Medicone"
E io, e io, e io
e andare, e andare
e uscire all'aria
e sudare, sudare
e il cuore, il cuore, il cuore
da trascinare
fino a prendere, a prendere
il treno, il treno.
E nella galleria
la gente entra al buio,
esce ammalata,
cesso d' un farmacista
e nello stretto ti guardano,
ti domandano chi sei,
il patrimonio e il mestiere
che per loro il viaggiare non lo è;
poi ti tocca un portiere viscido
e una stanza umida
e nell'altra stanza
le bagasce a dare il menù
e tu con una voglia che non vuoi
a tirare la Bibbia nel muro,
chiudere a chiave anche la finestra
e ad acciambellarti sopra il cuore.
Uh... medico, medico, medico, mio medicone;
uh... vieni, vieni giù dal seggiolone.
Una sedia dura,
scemo di un tortaio,
una farinata che suda
e le manca il sale,
tutti succhiatori di lische,
dal pappone in giù,
se giri la testa
ti vedi il culo,
e a star fuori c'è il rischio
che ti tocchi una passione
per una faccia da Madonna
che ti sposta il comò,
un amore mai in esclusiva,
sempre con qualcosa da pagare,
una signorina che sotto la coda
ha il buco da signora.
Uh... medico, medico, medico, mio medicone;
uh... vieni, vieni giù dal seggiolone.
Uh... che cazzo di contratto mi faresti fare;
uh... che a forza di prendere aria si va all'ospedale.
E io, e io, e io
non andare, non andare
stare qui, stare qui, stare qui
dormire, dormire;
e io, e io, e io
non andare, non andare
stare qui, stare qui, stare qui,
sognare.
Uh... medico, medico, medico, mio medicone;
uh... vieni, vieni giù dal seggiolone.
Uh... medico, medico, medico, mio medicone;
uh... vieni, vieni giù dal seggiolone.
Uh... medico, medico, medico, mio medicone;
uh... vieni, vieni giù dal seggiolone.
Uh... medico, medico, medico, mio medicone;
uh... vieni, vieni giù dal seggiolone.

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'A Pittima (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Cosa ghe possu, ghe possu fâ,
se nu gh'ò ë brasse pe fâ u mainä,
se infundo a e brasse nu gh'ò ë män du massacán?
E mi gh'ò 'n pûgnu dûu ch'u pâ 'n nìu,
gh'ò 'na cascetta larga 'n dìu,
giûstu pe ascúndime c'u vestíu deré a 'n fiu,
e vaddu in gìu a çerca i dinë
a chi se i tegne e ghe l'àn prestë
e ghe i dumandu timidamente ma in mezu ä gente,
e a chi nu veu däse raxún,
che pâ de stránûä cuntru u trun,
ghe mandu a dî che vive l'è cäu ma a bu-n mercöu.
Mi sun 'na pittima (*) rispettä,
e nu anâ 'ngíu a cuntâ
che quandu a víttima l'è 'n strassé ghe dö du mæ.
(*) - "Pittima": Alla pittima, ancora oggi sinonimo di persona insistente, noiosa e appiccicosa, si affidava il compito da parte di cittadini privati dell'antica Genova di esigere i crediti dei debitori insolventi.

Traduzione dal genovese: "La Pittima"
Cosa ci posso, ci posso fare
se non ho le braccia per fare il marinaio,
se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore?
E ho un pugno duro che sembra un nido,
ho un torace largo un dito,
giusto per nascondermi con il vestito dietro a un filo,
e vado in giro a chiedere i soldi
a chi se li tiene e glieli hanno prestati
e glieli domando timidamente ma in mezzo alla gente,
e a chi non vuole darsi ragione,
che sembra di starnutire contro il tuono,
gli mando a dire che vivere è caro ma a buon mercato.
Io sono una pittima rispettata,
e non andare in giro a raccontare
che quando la vittima è uno straccione le do del mio.

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'A Dumenega (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Quandu ä dumenega fan u gíu,
cappellin neuvu, neuvu u vestiu,
cu 'a madama, a madama 'n testa,
o belin che festa, o belin che festa!
E tûtti apreuvu ä pruccessiún
d'a Teresin-a du Teresún,
tûtti a miâ ë figge du diàu,
che belin de lou, che belin de lou!
E a stu luciâ de cheusce e de tettìn
ghe fan u sciätu anche i ciû piccìn:
"mama, mama, damme ë palanche,
veuggiu anâ a casín, veuggiu anâ a casín!".
E ciû s'addentran inta cittaë
ciû euggi e vuxi ghe dan deré,
ghe dixan quellu che nu peúan dî
de zeùggia, de sabbu e de lûnedì.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce da sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu. (*)
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce da sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
E u direttú du portu c'u ghe vedde l'ou
'nte quelle scciappe a reposu da u lou,
pe nu fâ vedde ch'u l'è cuntentu
ch'u meu neuvu u gh'à u finansiamentu,
u se cunfunde 'nta confûsiûn
cun l'euggiu pin de indignasiún,
e u ghe cría, u ghe cría deré
"bagasce sëi e ghe restè".
E ti che ti ghe sbraggi apreuvu
"mancu ciû u nasu gh'avei de neuvu",
bruttu galûsciu de 'n purtòu de Cristu,
nu tè l'ûnicu ch'u se n'è avvistu
che in mezu a quelle creatûe
che se guagnan u pan da nûe
a gh'è, a gh'è, a gh'è, a gh'è,
a gh'è anche teu muggè.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
A Ciamberlin sûssa belín,
ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe,
in Caignàn musse de tersa man,
e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu.
Era costume della vecchia Genova che le prostitute fossero relegate in un quartiere della città. Tra i diritti ad esse riconosciuti vi era quello della passeggiata domenicale. Il comune era solito dare in appalto le case di tolleranza con i cui ricavi pare riuscisse coprire quasi per intero gli annuali lavori portuali.
(*) - Ciamberlin, Fuxe, Caignàn, Puntexellu: Piazze, vie e località di Genova.

Traduzione dal genovese: "La Domenica"
Quando alla domenica fanno il giro,
cappellino nuovo, nuovo il vestito,
con la madama, la madama in testa,
cazzo che festa, cazzo che festa!
E tutti dietro alla processione
della Teresina del Teresone,
tutti a guardare le figlie del diavolo,
che cazzo di lavoro, che cazzo di lavoro!
E a questo dondolare di cosce e di tette
gli fanno il chiasso anche i più piccoli:
"mamma, mamma, dammi i soldi,
voglio andare a casino, voglio andare a casino!".
E più si addentrano nella città
più occhi e voci danno loro dietro,
dicono loro quello che non possono dire
di giovedì, di sabato e di lunedì.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
E il direttore del porto che ci vede l'oro
in quelle chiappe a riposo dal lavoro,
per non fare vedere che è contento
che il molo nuovo ha il finanziamento,
si confonde nella confusione
con l'occhio pieno di indignazione
e grida loro, grida loro dietro
"bagasce siete e ci restate!".
E tu che sbraiti loro appresso
"neanche più il naso avete di nuovo",
brutto stronzo di un portatore di Cristo,
non sei l'unico che s'è accorto
che in mezzo a quelle creature
che si guadagnano il pane da nude
c'è, c'è, c'è, c'è,
c'è anche tua moglie.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.
A Pianderlino succhia cazzi,
alla Foce cosce da schiaccianoci,
in Carignano fiche di terza mano,
e a Ponticello gli mostrano l'uccello.

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'A Çimma (Live 1991)
(Testo: Fabrizio De André e Ivano Fossati; Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Ti t'adesciàe 'nsce l'èndegu du matin,
ch'à luxe a l'à 'n pè 'n tera e l'àtru in mà,
ti t'ammiâe a uo spégiu de 'n tianin,
ou çé s'amnià a ou spegiu dâ ruzà.
Ti mettiàe ou brùgu rèdennu 'nte 'n cantùn,
che se d'à cappa a sgùggia 'n cuxin-a 'a stria,
a xeùa de cuntà 'e pàgge che ghe sùn,
'a çimma a l'è za pinn-a, a l'è za cùxia.
Cè serèn, tèra scùa,
carne tènia, nu fàte nèigra,
nu turnà dùa.
Bell'oueggè, strapunta de tùttu bun,
prima de battezàla 'ntou prebuggiun,
cun dui aguggiuìn dritu 'n pùnta de pè
da sùrvia 'n zù fitu ti 'a punziggè.
Àia de lùn-a vègia, de ciaèu, de nègia,
ch'ou cègu ou pèrde 'a tèsta, l'àse ou sentè,
oudù de mà misciòu de pèrsa lègia,
cos'àtru fa, cos'àtru dàghe a ou cè?
Cè serèn, tèra scùa,
carne tènia, nu fàte nèigra,
nu turnà dùa;
e 'nt'ou nùme de Maria
tùtti i diài da sta pùgnatta
anène via.
Poi vegnan a pigiàtela i càmè,
te lascian tùttu ou fùmmu d'ou toèu mestè,
tucca a ou fantin à prima coutelà:
mangè, mangè, nu sèi chi ve mangià.
Cè serèn, tèra scùa,
carne tènia, nu fàte nèigra,
nu turnà dùa;
e 'nt'ou nùme de Maria
tùtti i diài da sta pùgnatta
anène via.

Traduzione dal genovese: "La Cima"
Ti sveglierai sull'indaco del mattino,
quando la luce ha un piede in terra e l' altro in mare,
ti guarderai allo specchio di un tegamino,
il cielo si guarderà allo specchio della rugiada.
Metterai la scopa dritta in un angolo,
chè se dalla cappa scivola in cucina la strega
a forza di contare le paglie che ci sono,
la cima è già piena, è già cucita.
Cielo sereno, terra scura,
carne tenera, non diventare nera,
non ritornare dura.
Bel guanciale, materasso di ogni ben di Dio,
prima di battezzarla nelle erbe aromatiche,
con due grossi aghi dritti in punta di piedi
da sopra a sotto svelto la pungerai.
Aria di luna vecchia, di chiarore, di nebbia,
che il chierico perde la testa e l'asino il sentiero,
odore di mare mescolato a maggiorana leggera,
cos'altro fare, cos'altro dare al cielo?
Cielo sereno, terra scura,
carne tenera, non diventare nera,
non ritornare dura;
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via.
Poi vengono a prendertela i camerieri,
ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere,
tocca allo scapolo la prima coltellata:
mangiate, mangiate, non sapete chi vi mangerà.
Cielo sereno, terra scura,
carne tenera, non diventare nera,
non ritornare dura;
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via.

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Sinàn Capudàn Pascià (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
Teste fascië 'nscià galéa,
ë sciabbre se zeugan a lûn-a,
a mæ a l'è restà duv'a l'éa
pe nu remenalu ä furtûn-a.
Intu mezu du mä
gh'è 'n pesciu tundu
che quandu u vedde ë 'brûtte
u va' 'nsciù fundu;
intu mezu du mä
gh'è 'n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle
u vegne a galla. (*)
E au postu d'i anni ch'ean dexenueve
se sun piggiaë ë gambe e ë maæ brasse nueve,
d'allua a cansún l'à cantà u tambûu
e u lou s'è gangiou in travaggiu dûu,
"vuga, t'è da vugâ, prexuné,
e spuncia, spuncia u remmu fin au pë;
vuga, t'è da vugâ, turtaiéu (**),
e tia, tia u remmu fin a u cheu".
E questa a l'è a me stöia
e t`ä veuggiu cuntâ
'n po' primma ch'à vegiàià
a me peste 'ntu murtä,
e questa a l'è a memöia,
a memöia du Çigä,
ma 'nsci libbri de stöia
"Sinàn Capudàn Pascià".
E suttu u timun du gran cäru,
c'u muru 'nte 'n broddu de färu,
'na neutte, ch'u freidu u te morde,
u te giàscia, u te spûa e u te remorde,
e u Bey assettòu u pensa ä Mecca
e u vedde ë Urì 'nsce 'na secca,
ghe giu u timùn a lebecciu,
sarvàndughe a vitta e u sciabeccu.
Amü, me bell'amü,
a sfurtûn-a a l'è 'n grifun
ch'u gia 'ngiu ä testa du belinun;
Amü, me bell'amü,
a sfurtûn-a a l'è 'n belin
ch'ù xeua 'ngiu au cû ciû vixín.
E questa a l'è a me stöia
e t'ä veuggiu cuntâ
'n po' primma ch'à a vegìáìa
a me peste 'ntu murtä;
e questa a l'è a memöia,
a memöia du Çigä,
ma 'nsci libbri de stöia
"Sinàn Capudàn Pascià".
E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse, a l'argentu e l'öu
Sinàn gh'a lasciòu de luxî au sü,
giastemmandu Mumä au postu du Segnü.
Intu mezu du mä
gh'è 'n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte
u va 'nsciù fundu;
intu mezu du mä
gh'è 'n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle
u vegne a galla.
Nella seconda metà del XV Secolo, in uno scontro alle isole Gerbe tra la flotta della Repubblica di Genova e quella turca, insieme ad altri prigionieri venne catturato un marinaio di nome Cicala che divenne in seguito Gran Visir e Serraschiere del Sultano, assumento il nome di "Sinàn Capudàn Pascià".
(*) - "Intu mezu du mä... u vegne a galla": Ritornello popolare di alcune località rivierasche tirreniche.
(**) - Turtaiéu": Letteralmente "imbuto". Termine usato per indicare un individuo che mangia senza misura.

Traduzione dal genovese: "Sinàn Capudàn Pascià"
Teste fasciate sulla galea,
le sciabole si giocano la luna,
la mia è rimasta dov'era
per non stuzzicare la fortuna.
In mezzo al mare
c'è un pesce tondo
che quando vede le brutte
va sul fondo;
in mezzo al mare
c'è un pesce palla
che quando vede le belle
viene a galla.
E al posto degli anni che erano diciannove
si sono presi le gambe e le mie braccia nuove,
da allora la canzone l'ha cantata il tamburo
e il lavoro è diventato fatica,
"voga, devi vogare, prigioniero,
e spingi, spingi il remo fino al piede;
voga, devi vogare, "imbuto",
e tira, tira il remo fino al cuore".
E questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po' prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio,
e questa è la memoria,
la memoria del Cicala,
ma sui libri di storia
"Sinàn Capudàn Pascià".
E sotto il timone del gran carro,
con la faccia in un brodo di farro,
una notte che il freddo ti morde,
ti mastica, ti sputa e ti rimorde,
e il Bey seduto pensa alla Mecca
e vede le Urì su una secca,
gli giro il timone a libeccio,
salvandogli la vita e lo sciabecco.
Amore, mio bell'amore,
la sfortuna è un avvoltoio
che gira intorno alla testa dell'imbecille;
Amore, mio bell'amore,
la sfortuna è un cazzo
che vola intorno al sedere più vicino.
E questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po' prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio;
e questa è la memoria,
la memoria di Cicala,
ma sui libri di storia
"Sinàn Capudàn Pascià".
E digli a chi mi chiama rinnegato
che a tutte le ricchezze, all'argento e all'oro
Sinàn ha concesso di luccicare al sole,
bestemmiando Maometto al posto del Signore.
In mezzo al mare
c'è un pesce tondo
che quando vede le brutte
va sul fondo;
in mezzo al mare
c'è un pesce palla
che quando vede le belle
viene a galla.

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Le Nuvole (Live 1991)
(Testo e Musica: Fabrizio De André e Mauro Pagani)
(Dal vivo venne eseguita solo la musica, senza parole)
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