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25

Fabrizio De André - Album
1970: La Buona Novella

  Laudate Dominum
L'Infanzia Di Maria
Il Ritorno Di Giuseppe
Il Sogno Di Maria
Ave Maria
Maria Nella Bottega Di Un Falegname
Via Della Croce
Tre Madri
Il Testamento Di Tito
Laudate Hominem

Laudate Dominum
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Laudate Dominum,
laudate Dominum,
laudate Dominum.

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L'Infanzia Di Maria
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Forse fu all'ora terza,
forse alla nona,
cucito qualche giglio
sul vestitino alla buona,
forse fu per bisogno
o, peggio, per buon esempio,
presero i tuoi tre anni
e li portarono al tempio;
presero i tuoi tre anni
e li portarono al tempio.
Non fu più il seno di Anna,
fra le mura discrete,
a consolare il pianto,
a calmarti la sete;
dicono fossi un angelo
a raccontarti le ore,
a misurarti il tempo
fra cibo e Signore;
a misurarti il tempo
fra cibo e Signore.
Scioglie la neve al sole,
ritorna l'acqua al mare,
il vento e la stagione
ritornano a giocare.
Ma non per te, bambina,
che nel tempio resti china;
ma non per te, bambina,
che nel tempio resti china.
E quando i sacerdoti
ti rifiutarono alloggio,
avevi dodici anni
e nessuna colpa addosso;
ma per i sacerdoti
fu colpa il tuo maggio,
la tua verginità
che si tingeva di rosso;
la tua verginità
che si tingeva di rosso.
E si vuol dar marito
a chi non lo voleva,
si batte la campagna,
si fruga la via,
popolo senza moglie,
uomini d'ogni leva,
del corpo di una vergine
si fa lotteria;
del corpo di una vergine
si fa lotteria.
Sciogli i capelli e guarda:
già vengono!
Guardala, guardala, scioglie i capelli,
sono più lunghi dei nostri mantelli,
guarda la pelle tenera, lieve,
risplende al sole come la neve.
Guarda le mani, guardale il viso,
sembra venuta dal Paradiso,
guarda le forme, la proporzione,
sembra venuta per tentazione.
Guardala, guardala, scioglie i capelli,
sono più lunghi dei nostri mantelli,
guarda le mani, guardale il viso,
sembra venuta dal Paradiso,
guardale gli occhi, guarda i capelli,
guarda le mani, guardale il collo,
guarda la carne, guarda il suo viso,
guarda i capelli del Paradiso.
Guarda la carne, guardale il collo,
sembra venuta dal suo sorriso,
guardale gli occhi, guarda la neve
guarda la carne del Paradiso.
E fosti tu, Giuseppe,
un reduce del passato,
falegname per forza,
padre per professione,
a vederti assegnata
da un destino sgarbato
una figlia di più
senza alcuna ragione,
una bimba su cui
non avevi intenzione.
E mentre te ne vai,
stanco d'essere stanco,
la bambina per mano,
la tristezza di fianco,
pensi "quei sacerdoti
la diedero in sposa
a dita troppo secche
per chiudersi su una rosa,
a un cuore troppo vecchio
che ormai si riposa".
Secondo l'ordine ricevuto, Giuseppe
portò la bambina nella propria casa
e subito se ne partì per dei lavori
che lo attendevano fuori della Giudea.
Rimase lontano quattro anni.

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Il Ritorno Di Giuseppe
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Stelle, già dal tramonto,
si contendono il cielo a frotte,
luci meticolose
nell'insegnarti la notte.
Un asino dai passi uguali,
compagno del tuo ritorno,
scandisce la distanza
lungo il morire del giorno.
Ai tuoi occhi, il deserto:
una distesa di segatura,
minuscoli frammenti
della fatica della natura.
Gli uomini della sabbia
hanno profili da assassini,
rinchiusi nei silenzi
d'una prigione senza confini.
Odore di Gerusalemme,
la tua mano accarezza il disegno
d'una bambola magra,
intagliata nel legno.
"La vestirai, Maria,
ritornerai a quei giochi
lasciati quando i tuoi anni
erano così pochi".
E lei volò fra le tue braccia
come una rondine,
e le sue dita come lacrime,
dal tuo ciglio alla gola,
suggerivano al viso,
una volta ignorato,
la tenerezza d'un sorriso,
un affetto quasi implorato.
E lo stupore nei tuoi occhi
salì dalle tue mani
che, vuote intorno alle sue spalle,
si colmarono ai fianchi
della forma precisa
d'una vita recente,
di quel segreto che si svela
quando lievita il ventre.
E a te, che cercavi il motivo
d'un inganno inespresso dal volto,
lei propose l'inquieto ricordo
fra i resti d'un sogno raccolto.

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Il Sogno Di Maria
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Nel grembo umido, scuro del tempio
l'ombra era fredda, gonfia d'incenso,
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera;
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese "conosci l'estate?",
io per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.
Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade;
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.
Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo, nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.
Le ombre lunghe dei sacerdoti
costrinsero il sogno in un cerchio di voci;
con le ali di prima pensai di scappare,
ma il braccio era nudo e non seppe volare;
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa
e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d'un'altra vita,
foglie le mani, spine le dita.
Voci di strada, rumori di gente
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente;
sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera,
dove forse era sogno ma sonno non era:
"lo chiameranno Figlio di Dio":
parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.
E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.
E tu piano posasti le dita
all'orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte.

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Ave Maria
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
E te ne vai, Maria, fra l'altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.
Sai che fra un'ora forse piangerai,
poi la tua mano nasconderà un sorriso,
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.
Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore,
povero o ricco, umile o Messia.
Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.

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Maria Nella Bottega Di Un Falegname
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Falegname col martello,
perché fai "den den"?
Con la pialla su quel legno
perché fai "fren fren"?
Costruisci le stampelle
per chi in guerra andò?
Dalla Nubia sulle mani
a casa ritornò?
Mio martello non colpisce,
pialla mia non taglia
per foggiare gambe nuove
a chi le offrì in battaglia,
ma tre croci, due per chi
disertò per rubare,
la più grande per chi guerra
insegnò a disertare.
Alle tempie addormentate
di questa città
pulsa il cuore di un martello,
quando smetterà?
Falegname, su quel legno,
quanti colpi ormai,
quanto ancora con la pialla
lo assottiglierai?
Alle piaghe, alle ferite
che sul legno fai,
falegname, su quei tagli
manca il sangue, ormai,
perché spieghino da soli,
con le loro voci,
quali volti sbiancheranno
sopra le tue croci.
Questi ceppi che han portato,
perché il mio sudore
li trasformi nell'immagine
di tre dolori,
vedran lacrime di Dimaco
e di Tito al ciglio,
il più grande che tu guardi
abbraccerà tuo figlio.
Dalla strada alla montagna
sale il tuo "den den",
ogni valle di Giordania
impara il tuo "fren fren";
qualche gruppo di dolore
muove il passo inquieto,
altri aspettan di far bere
a quelle seti aceto.

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Via Della Croce
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav'uomo di nome Pilato.
Ben più della morte che oggi ti vuole,
t'uccide il veleno di queste parole,
le voci dei padri di quei neonati
da Erode, per te, trucidati.
Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
misurano a gocce il dolore che provi:
trent'anni hanno atteso, col fegato in mano,
i rantoli d'un ciarlatano.
Si muovono, curve, le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa,
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore,
ma filtra dai veli il dolore;
fedeli umiliate da un credo inumano,
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò Maddalena,
di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d'un redentore.
Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti al pensiero che tu li saluti;
a redimere il mondo, gli serve pensare,
il tuo sangue può certo bastare.
La semineranno per mare e per terra,
tra boschi e città la tua Buona Novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore;
nessuno di loro ti grida un addio,
per essere scoperto cugino di Dio,
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
Fratello che sanguini in croce.
Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.
Il potere, vestito d'umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.
Ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore,
che alla via della croce ha proibito l'ingresso
a chi ti ama come se stesso.
Son pallidi al volto, scavati al torace,
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore,
eppure hanno un posto d'onore.
Non hanno negli occhi scintille di pena,
non sono stupiti a vederti la schiena
piegata dal legno che a stento trascini,
eppure ti stanno vicini.
Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morir sulla croce anche loro,
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo, son solo due ladri.

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Tre Madri
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Tito, non sei figlio di Dio,
ma c'è chi muore nel dirti addio.
Dìmaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre.
Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l'immagine d'un'agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia a noi piangere un po' più forte
chi non risorgerà più dalla morte.
Piango di lui ciò che mi è tolto:
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore
e chi ti chiama "nostro Signore"
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre;
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama "amor" questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio,
t'avrei ancora per figlio mio.

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Il Testamento Di Tito
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
"Non avrai altro Dio all'infuori di me",
spesso mi ha fatto pensare;
genti diverse venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale:
credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male;
credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
"Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano":
con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore;
ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.
"Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone",
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore,
non ho provato dolore;
quando a mio padre si fermò il cuore,
non ho provato dolore.
"Ricorda di santificare le feste":
facile, per noi ladroni,
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni,
senza finire legati agli altari,
sgozzati come animali;
senza finire legati agli altari,
sgozzati come animali.
Il quinto dice "non devi rubare"
e forse io l'ho rispettato,
vuotando in silenzio le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio;
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio.
"Non commettere atti che non siano puri",
cioè non disperdere il seme,
feconda una donna ogni volta che l'ami,
così sarai uomo di fede;
poi la voglia svanisce e il figlio rimane,
e tanti ne uccide la fame,
io, forse, ho confuso il piacere e l'amore,
ma non ho creato dolore.
Il settimo dice "non ammazzare,
se del cielo vuoi essere degno":
guardàtela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno,
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno;
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno.
"Non dire falsa testimonianza"
e aiutali a uccidere un uomo;
lo sanno a memoria il diritto divino
e scordano sempre il perdono:
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e, no, non ne provo dolore;
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e, no, non ne provo dolore.
"Non desiderare la roba degli altri",
"non desiderarne la sposa":
ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:
nei letti degli altri già caldi d'amore
non ho provato dolore;
l'invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.
Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest'uomo che muore,
madre, io provo dolore;
nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l'amore.

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Laudate Hominem
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Laudate Dominum,
laudate Dominum.
Il potere che cercava
il nostro umore,
mentre uccideva
nel nome di un Dio,
nel nome di un Dio
uccideva un uomo:
nel nome di quel Dio
si assolse.
Poi, poi chiamò Dio,
poi chiamò Dio,
poi chiamò Dio quell'uomo
e nel suo nome,
nuovo nome,
altri uomini,
altri,
altri uomini
uccise.
Non voglio pensarti figlio di Dio,
ma figlio dell'uomo, fratello anche mio.
Laudate.
Ancora una volta
abbracciammo la fede
che insegna ad avere,
ad avere il diritto
al perdòno,
perdòno,
sul male commesso
nel nome di un Dio
che il male non volle,
il male non volle,
finché
restò uomo,
uomo.
Non posso pensarti figlio di Dio,
ma figlio dell'uomo, fratello anche mio.
Qualcuno,
qualcuno,
tentò di imitarlo,
se non ci riuscì
fu scusato,
anche lui
perdonato,
perché non si imita,
imita un Dio,
un Dio va temuto e lodato,
lodato.
Laudate hominem.
No, non devo pensarti figlio di Dio,
ma figlio dell'uomo, fratello anche mio,
ma figlio dell'uomo, fratello anche mio.
Laudate hominem.

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